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Data: 17/03/2005
Settore:
Trasporto pubblico locale
Più trasporto pubblico, mobilità sostenibile. Cambiare si può. La relazione di Franco Nasso

Più trasporto pubblico, mobilità sostenibile

Cambiare si può

Relazione di Franco Nasso

 

Da troppo tempo sui problemi aperti nel trasporto pubblico locale la discussione si svolge con un andamento che segue direttamente la dimensione dell'emergenza mobilità.

È un ciclo stagionale, quando le città si bloccano, quando i livelli d’inquinamento costringono i sindaci a prendere provvedimenti di limitazione del traffico privato, i giornali si occupano di quanto accade: dei rischi e dei costi di un sistema della mobilità che ha raggiunto, da molto tempo, la saturazione e che produce danni crescenti.

Solo a questo punto si accende il dibattito intorno ai possibili rimedi.

Appena cambia il tempo e il tasso d'inquinamento scende sotto il livello considerato insopportabile dai limiti di legge, il problema viene accantonato fino alla successiva emergenza.

Uscire dalla stagionalità della discussione e dalla mancanza di interventi concreti significa, innanzitutto, mettersi d'accordo sul ruolo che si vuole assegnare al trasporto pubblico locale.

Occorre che il TPL non sia più visto come un costo da contenere ma, invece, come un fattore di moltiplicazione delle possibilità di sviluppo.

Il trasporto collettivo deve essere vissuto come elemento decisivo, e non sostituibile, di contenimento degli altissimi costi diretti e indiretti che la collettività sopporta in conseguenza del disastro esistente nel sistema dei trasporti.

È del tutto evidente che il problema non ammette soluzione se non si riconosce che togliere il TPL dalla marginalità in cui è relegato, rappresenta una convenienza per il paese, oltre ad essere una inderogabile necessità.

Il sindacato ha posto da tempo, e in molte occasioni, questo problema a Governo, Regioni, Comuni e Province, imprese e loro organizzazioni di rappresentanza.

Abbiamo denunciato il degrado del sistema della mobilità e la mancanza di interventi correttivi, sempre più necessari.

A seguito dei noti fatti del dicembre 2003 e dell'inizio del 2004, abbiamo presentato una piattaforma rivendicativa che, prima delle questioni strettamente contrattuali, poneva il problema della necessità di interventi strutturali nel settore.

Abbiamo rinnovato il contratto, ma sugli altri punti della vertenza Governo, Regioni, Enti locali, a distanza di un anno, non hanno dato risposte e i problemi del settore si sono aggravati.

Il Governo, nell'unica occasione rappresentata dall'incontro del 7 aprile 2004, aveva promesso l'avvio dei tavoli istituzionali che dovevano occuparsi dei problemi del settore, per poi non dare alcun seguito agli impegni.

Se permane questa assenza di iniziativa i rischi di pericolosa ulteriore regressione sono molto elevati.

L’inadeguatezza del trasporto pubblico, che tutti denunciano, non si risolve se non si realizza un radicale cambiamento rispetto alla consolidata gestione del TPL da parte delle istituzioni e delle imprese: per affrontare correttamente il problema è necessario spostare l’asse della discussione, rovesciando lo schema seguito fino ad oggi.

Il trasporto pubblico locale è stato considerato da molti come residuale, le risorse trasferite sono bloccate da anni, gli investimenti sono stati ridotti al minimo, il contenimento dei costi è stato perseguito a scapito della qualità del servizio e comprimendo quanto possibile sul versante lavoro.

Di tutto questo hanno fatto le spese i cittadini che si ritrovano un servizio scadente per qualità e quantità dell'offerta.

La situazione è stata aggravata dal continuo conflitto che si è generato tra i diversi livelli istituzionali sul problema delle risorse e sulle norme attuative del federalismo e della liberalizzazione.

Occorre passare dalla politica di gestione dell’emergenza alla programmazione degli interventi e delle risorse.

Il disastro in atto è cronaca quotidiana: il tasso di motorizzazione privata, in Italia, è il più alto d’Europa, escluso il piccolo Lussemburgo.

Le auto private occupano il territorio urbano, la congestione delle città è crescente e i costi diretti e indiretti sono insopportabili.

Il servizio pubblico è insufficiente: pochi treni, metropolitane e tram.

Il parco autobus, inadeguato nel numero, ha un’età media di 10 anni, contro quella europea di sette.

Il problema è particolarmente concentrato nelle aree urbane, che pagano pesantemente i ritardi, la mancanza di una adeguata politica di programmazione e le incapacità delle istituzioni locali di prendere decisioni scomode rispetto al consenso a breve termine, ma indispensabili.

Mobilità sostenibile: le città

La mobilità dall’esterno verso le città e quella all’interno delle stesse rappresenta la quota largamente prevalente del totale degli spostamenti.

La risposta che bisogna dare a questa grande domanda di mobilità rappresenta il principale problema da risolvere.

Discutere di sviluppo del TPL e di mobilità sostenibile significa infatti mettere al centro il problema delle città.

I segnali che provengono dai dati relativi agli ultimi mesi indicano che esiste una quantità crescente di domanda insoddisfatta.

La richiesta di trasporto pubblico non trova però la risposta necessaria e questo costringe molti a continuare con l’uso dei mezzi privati, nonostante si percepisca che questa modalità di spostamento è ormai alla saturazione.

Porsi il problema di accrescere rapidamente la dimensione dell’offerta, e di migliorarne la qualità, significa anche avere la certezza di incontrare la domanda corrispondente.

Il TPL non è un settore in crisi, non è la domanda di trasporto che manca, mancano gli interventi necessari a favorire lo sviluppo.

Se queste cose si realizzano, l’obiettivo della crescita del trasporto collettivo e della mobilità sostenibile è realizzabile.

Le risorse

L’insufficienza delle risorse messe a disposizione del TPL rappresenta il principale problema aperto che però, per come viene normalmente posto, mette in ombra la complessità degli interventi di carattere strutturale necessari.

C'è da chiedersi se è veramente giusto, per la collettività, accollarsi il peso dei consistenti sforzi economici necessari per gli investimenti e per il servizio, se questo non avviene congiuntamente a credibili interventi di programmazione e di decisioni politiche.

Le confederazioni Cgil, Cisl e Uil, insieme alle Federazioni dei trasporti, hanno sempre rivendicato finanziamenti adeguati per il trasporto pubblico locale, così hanno fatto anche le imprese e le istituzioni locali.

Davanti all’emergenza mobilità, sempre più grave, l’incremento delle risorse è, con assoluta evidenza, una necessità non più rinviabile.

Questo non vuol dire però che siamo tutti d'accordo sulla loro destinazione.

Per questo motivo recentemente, considerando condivisibili le ipotesi d’incremento e di stabilizzazione dei flussi dei trasferimenti, avanzate da Federmobilità, abbiamo posto l'accento sulla necessità di una profonda correzione nelle modalità d’utilizzo delle risorse.

Senza le altre necessarie azioni maggiori stanziamenti sarebbero, infatti, destinati a incidere ben poco sullo stato delle cose.

Le imprese chiedono più risorse per sostenere una situazione dei bilanci sempre più precaria: le chiedono per coprire i costi dei rinnovi contrattuali e per la sostituzione del materiale rotabile obsoleto.

Non molto diverso è il comportamento dei Sindaci, delle Regioni e del Governo che hanno sempre discusso, prevalentemente, dei soldi che mancano.

Le risorse aggiuntive sono necessarie e devono essere indirizzate, prioritariamente, verso le politiche di sviluppo e di mobilità sostenibile.

Diversamente finiranno, anch’esse, rapidamente assorbite dalla gigantesca spugna rappresentata dal sistema delle imprese e dal disastrato sistema dei trasporti.

Più trasporto collettivo e migliore ripartizione modale: dalla gomma al ferro

La marginalità del trasporto collettivo è riassunta nei dati che tutti gli studi sulla mobilità riportano.

In Italia l'82% della mobilità delle persone avviene con l'uso di mezzi privati.

Del restante 18% una quota del 5,5% avviene per ferrovia, l'1,3% è la quota del trasporto aereo, lo 0,6% navigazione interna e cabotaggio e il restante 10,6% è trasporto collettivo urbano ed extraurbano, in larga prevalenza su gomma.

Questo vuol dire che dei 900 miliardi di viaggiatori/km annui stimati in Italia, oltre il 90% degli spostamenti è effettuato con mezzi a motore termico, su gomma.

Il trasporto ferroviario è relegato ad un ruolo marginale.

Nel servizio pubblico, urbano, extraurbano e regionale, la modalità largamente prevalente è il trasporto su gomma. Questo squilibrio dei modi di trasporto ha degli effetti pesanti in termini di inquinamento, di congestione del traffico, di tempi di percorrenza, ecc.

è del tutto evidente la necessità di spostare quote importanti dalla gomma al ferro, come elemento fondamentale di riequilibrio e di sostenibilità del trasporto dei viaggiatori che si spostano dall'esterno verso le città e viceversa.

La modalità ferroviaria, insieme ai minori costi e al limitato impatto ambientale, ha un vantaggio straordinario che origina dalla rapidità d’accesso ai centri urbani.

L'ubicazione delle stazioni, comunemente dislocate fino al centro delle città, consente di risolvere bene il problema dei grandi flussi in ingresso e in uscita, con un servizio che può andare incontro alle crescenti esigenze della popolazione che sempre più sposta la residenza all’esterno delle aree metropolitane.

Per questa tipologia di spostamento, l’uso del treno può diventare sempre più l’alternativa vincente a quello dell’auto privata.

C’è una grande opportunità da cogliere che nasce dalla possibilità di far circolare molti più treni regionali sull’infrastruttura ferroviaria.

Alla fine del 2007, secondo le previsioni di FS, il completamento delle prime opere per l'Alta Velocità e gli interventi sui principali nodi ferroviari, renderanno disponibili grandi capacità di infrastruttura, in alcuni casi fino a 2,5 volte l'attuale disponibilità di tracce, per far circolare treni verso le aree metropolitane.

In ambito urbano occorre sviluppare gli investimenti relativi al trasporto in sede propria: metropolitane e tranvie, anche se la dimensione degli investimenti necessari, particolarmente per le metropolitane, non può consentire, in tempi accettabili, di cambiare l’assetto del trasporto urbano.

Per fare questo sono necessarie azioni di programmazione che scelgano l'intermodalità e l'integrazione a favore del trasporto su ferro, eliminando linee parallele di ingresso nelle città, decidendo le linee di affluenza, i punti di interscambio e l’ubicazione dei parcheggi.

È difficile affrontare positivamente il tema della mobilità nelle aree metropolitane senza un governo unitario o almeno integrato della rete su ferro, delle metropolitane e del trasporto su gomma.

È necessario individuare la sede decisionale sui flussi di investimento su cui contare, così com’è necessario stabilire con certezza il soggetto responsabile dello sviluppo e della gestione delle reti.

Gli interventi nelle aree urbane in grado di mettere in condizione di vantaggio il trasporto collettivo

Insieme agli interventi per il riequilibrio modale e per lo sviluppo dell’intermodalità occorre risolvere il problema della mobilità all’interno delle aree urbane.

L’insieme delle azioni deve essere tale da rendere chiaramente conveniente l’uso del mezzo collettivo rispetto a quello privato, aumentando la velocità commerciale (oggi 18.2 km/h media), la regolarità delle corse, la frequenza delle stesse, ecc. attraverso le corsie preferenziali, i percorsi esclusivi per i mezzi pubblici, la chiusura al traffico privato di alcune aree dei centri storici.

Oggi in quasi tutte le città italiane, la velocità media dei mezzi privati è ampiamente al di sotto della soglia convenzionale di congestione di 25km/h; dentro questa situazione, i mezzi pubblici sono pesantemente penalizzati dal traffico e nelle grandi aree urbane la velocità commerciale è a livelli insostenibili(13-15km/h).

L’Enea (Ente nazionale per le energie alternative) ha di recente condotto uno studio che quantifica gli elevatissimi costi esterni che originano dalla congestione e illustra i vantaggi, in termini di minori costi, di un forte sviluppo del trasporto collettivo in ambito urbano.

I vantaggi sono misurati in termini di diminuzione dei volumi di traffico e dei consumi di energia, di minori emissioni di gas serra, di abbattimento dell’inquinamento atmosferico e acustico, di riduzione del numero di incidenti.

La valutazione della convenienza del mezzo pubblico avviene sulla base di criteri di funzionalità e qualità prima ancora che di economicità. Si prende il mezzo pubblico perché è significativamente più rapido del mezzo privato, perché garantisce velocità di percorrenza, certezza dei tempi, frequenza e capillarità delle corse, accessibilità delle fermate, rapidità negli interscambi.

Solo dopo aver fatto la scelta sulla base di questi criteri si tiene conto anche del risparmio.

Questo vale per i molti potenziali clienti che oggi possono permettersi il mezzo proprio di spostamento.

Per ottenere questo risultato, per invertire la valutazione della convenienza che fa scegliere il mezzo privato, occorre agire prioritariamente sugli spazi fisici a disposizione della mobilità privata.

Gli spostamenti dei mezzi pubblici di superficie devono essere liberati dai vincoli del traffico.

Se si parte dall'idea che nelle città lo spazio non basta e che non ci possono essere strade sufficienti a contenere tutto quello che circola, le auto e i motocicli, i mezzi privati che consegnano le merci e i mezzi pubblici, bisogna scegliere, individuare le priorità e agire di conseguenza.

Se si riconosce al trasporto collettivo la priorità di utilizzo dei pochi spazi fisici a disposizione della mobilità, occorre stabilire percorsi dedicati con corsie preferenziali, sedi protette, vie e zone dedicate al transito esclusivo dei mezzi pubblici; nonché un’attenta gestione degli orari per le diverse attività della città.

Una scelta di questo tipo mette in condizioni di svantaggio il trasporto privato e può determinare il punto d’inversione della valutazione della convenienza.

Se il mezzo pubblico ha tempi di percorrenza nettamente inferiori al mezzo privato la scelta è facilmente orientata.

Se poi, con lo spazio a disposizione e con pochi intralci da traffico, il mezzo pubblico può essere regolare e con frequenze elevate, il trasporto collettivo può essere vissuto come un'opportunità e una convenienza e non come una costrizione.

Tutto questo si può realizzare con un impiego limitato di risorse ottenendo il vantaggio di un forte incremento della velocità commerciale, con il conseguente aumento della produttività complessiva e della produttività del lavoro.

E’ evidente che il rapporto tra l’incremento della velocità commerciale e la possibilità di maggiore utilizzo dei mezzi e del lavoro dei conducenti può avere un enorme beneficio sul sistema della mobilità per effetto delle risorse liberate a favore del trasporto collettivo.

Se i Piani Urbani della Mobilità possono agire sulla selezione dell'uso del territorio urbano, molto meno convincenti appaiono le proposte relative ai pedaggi d'ingresso e all'estensione illimitata della sosta a pagamento.

La scelta della progressiva azione sui costi non può essere praticata oltre una certa misura.

Far pagare il parcheggio molto e dappertutto, e far pagare l’accesso nei centri urbani sembrano soluzioni semplici.

Le risorse recuperate, si sostiene, possono finanziare il trasporto pubblico.

Questo, fino ad un certo punto può essere vero, però limitare fortemente la mobilità individuale attraverso l’introduzione esasperata delle misure finanziarie di gestione del traffico, può determinare un elevato livello d’esclusione sociale.

Se il servizio pubblico non funziona e rimane compresso tra le auto che si muovono e parcheggiano a pagamento, può diventare il trasporto delle fasce sociali più deboli e quindi condannato ad un ruolo sempre più residuale.

Il criterio di dissuasione all’uso del mezzo privato deve essere tale da non poter essere superato con la disponibilità economica da quella parte di popolazione che se lo può permettere.

Ecco perché, se si vuole davvero arrestare il degrado, occorre produrre qualche scomodità iniziale, resistere alle inevitabili proteste di chi deve cambiare abitudini e convincere, con i fatti, che il trasporto pubblico nei centri urbani deve avere la priorità.

Sono scelte politiche difficili, che oggi si possono e si devono fare contando anche su un diffuso consenso.

A fronte dell’insostenibilità della situazione, non ci sono molte alternative, se non si vuole continuare a buttare le risorse in un pozzo senza fondo.

La rimessa in moto della riforma del settore

Il trasporto locale è stato privato, negli ultimi tre anni, degli elementi fondamentali necessari all’affermazione del processo di cambiamento e di sviluppo, la mancanza di qualsiasi intervento di programmazione è aggravata dalle modalità attuative del federalismo in materia di trasporti.

Il trasferimento di competenze risente del caos legislativo che si è determinato in Parlamento sulla materia.

La data del 31 dicembre 2003, che doveva rappresentare la scadenza decisiva per la messa a gara del servizio, è passata nel pieno del conflitto normativo.

Nel corso del 2004 ci sono stati alcuni casi di affidamento “in house” e poche gare in qualche Regione, che hanno quasi dappertutto confermato l’assegnazione alle aziende già affidatarie del servizio.

A gennaio 2005 è entrata in vigore la legge sulla delega ambientale, che all’art.48 prevede lo stralcio del settore del trasporto pubblico dal testo unico per gli enti locali, restituendolo ad un regime di concorrenza.

Si torna pertanto all’obbligo delle gare, che dovranno essere effettuate entro il 31 dicembre 2005.

Ci si ritrova ancora nell’incertezza normativa attraverso la riproposizione di un sistema di regole che hanno manifestato gravi limiti e che continueranno a produrre danni se non si interviene in profondità sugli assetti previsti dalla legge.

Bisogna riprendere la discussione intorno alle scelte che hanno portato a quell’impianto normativo, che si basava su un’idea della liberalizzazione come motore principale della riforma e che, invece, ha prodotto il peggioramento dello stato di crisi e la messa fuori gioco di qualsiasi prospettiva di costruzione di un adeguato sistema imprenditoriale nel settore.

Anche se molto hanno contribuito le successive incertezze legislative, si può sostenere che forse il fallimento era dentro quell’idea di attuazione del federalismo e della liberalizzazione.

Oggi, mentre in Europa si mettono in discussione le modalità di affidamento con evidenza pubblica, in Italia non si può insistere acriticamente su una scelta che alla prova dei fatti si è rivelata, nella migliore delle ipotesi, bisognosa di profonde correzioni.

Le contraddizioni che sono venute alla luce non possono essere rimosse davanti all’obbligo, quasi ideologico, di non mettere in discussione la liberalizzazione del settore.

Gli errori vanno corretti e non riguardano solo la grande questione del lavoro e delle clausole sociali.

Le regole in atto vanno rivisitate anche per quanto riguarda le modalità di copertura, considerate le enormi differenze relative alle tipologie di servizio e alle differenze territoriali, che non rendono credibile il “rapporto 35/65” come criterio unico nazionale.

Bisogna anche rivedere le competenze tra i diversi livelli istituzionali, che sono alla base del conflitto in atto e delle conseguenti incertezze normative che hanno provocato guasti consistenti; servono sedi unificate, in relazione alle scelte di indirizzo e di programmazione tra tutti i soggetti istituzionali interessati.

Rivedere la legge, rimettere in moto la riforma significa correggere gli errori e riprendere l’idea di regole a favore dello sviluppo e della modernizzazione del settore.

L'assetto delle imprese e la necessità di un adeguato sistema imprenditoriale nel settore

Uno dei punti di fallimento più evidenti dell’attuale sistema di regole è la sua incapacità di ridurre l’eccessiva frammentazione delle imprese nel settore.

Il sistema imprenditoriale italiano, nel trasporto pubblico locale, rappresenta un serio ostacolo allo sviluppo e assorbe in modo improprio risorse che si disperdono in maniera non più sostenibile.

Sono presenti circa 1260 aziende, delle quali solo l'8,3% possiede più di 100 autobus e circa il 65 % delle imprese svolge la propria attività con meno di 10 mezzi.

Le più grandi delle nostre aziende non reggono il confronto, per le dimensioni, con quelle europee che si stanno presentando sul mercato italiano e che sono in grado di assumere il controllo della parte redditizia del settore, viste anche le inadeguatezze legislative, non in grado di imporre obblighi di reciprocità agli altri paesi.

Così, senza correzioni, anche questo fondamentale comparto produttivo, sia per la gomma che per le ferrovie, può rapidamente essere consegnato alle imprese europee.

Le leggi in vigore non hanno previsto azioni in grado di imporre o favorire le aggregazioni ma hanno, invece, consentito l’ulteriore frammentazione.

Un sistema come quello italiano, con le sue troppe aziende, tende a difendersi opponendosi al cambiamento.

La riforma, che pure non aveva le condizioni per spingere alla riorganizzazione del sistema imprenditoriale nel settore, è stata fortemente osteggiata dalle imprese grandi e piccole, che hanno scelto la sopravvivenza a condizioni invariate.

I rapporti tra gli enti locali proprietari e le aziende non hanno aiutato i processi di aggregazione.

La trasformazione in SPA ha favorito le separazioni societarie e gli scorpori, moltiplicando aziende e CdA.

Il federalismo incerto e conflittuale ha peggiorato il male, e si intravede il rischio che, in alcune realtà regionali, il trasporto ferroviario possa realizzare la nuova azienda di riferimento.

Un sistema così frammentato continua ad assorbire risorse attraverso le inevitabili diseconomie e allo stesso tempo è fragile rispetto alla concorrenza.

Pertanto è necessario sostenere la costituzione di grandi aziende strutturate.

Questo è mancato fino ad oggi e gli interventi legislativi di regolazione del settore devono agire in questa direzione.

La ripresa della discussione sulle regole deve porre la questione dell’assetto delle imprese tra i principali problemi da risolvere.

La conclusione della fase di ricerca esasperata del contenimento del costo del lavoro: dalla produttività aziendale alla produttività di sistema

Dal 1997 ad oggi, mentre le risorse trasferite sono rimaste costanti e non indicizzate, nelle aziende del TPL si è registrato un eccezionale contenimento del costo del lavoro.

La scarsità di risorse, la trasformazione delle aziende in SpA e la prospettiva delle gare hanno prodotto un processo che ha raggiunto da tempo il suo limite e che deve essere considerato concluso.

Il fenomeno delle ricadute sul lavoro ha interessato tutto il settore dei trasporti, con le liberalizzazioni e l’introduzione della concorrenza.

Nel TPL le risorse insufficienti, l’attesa delle gare, la bassa produttività di sistema, le diseconomie che nascono dall’eccessiva frammentazione delle imprese e dalla confusione e dai conflitti tra i centri decisionali, hanno esasperato il processo di risanamento nei confronti del lavoro, fino a portarlo al punto di rottura.

I dati principali, riferiti al periodo 1997/2004, rappresentano quanto è successo, senza bisogno di molti commenti.

Nel periodo considerato, il rapporto tra trasferimenti alle aziende e volume della produzione in Km/vettura, è rimasto costante

Le retribuzioni contrattuali hanno seguito, con qualche decimo di punto a sfavore, le dinamiche dell’inflazione dell’indice ISTAT (il 19,36%) mentre il costo del lavoro è aumentato solo del 4,44%.

Questi pochi dati dimostrano che il recupero di produttività è stato molto elevato.

Di queste quote di produttività nulla è andato al lavoro e le azioni messe in atto hanno superato ampiamente quello che poteva essere il recupero consentito dalle condizioni di partenza.

Questo vuol dire che i margini di recupero di produttività del lavoro nelle singole aziende si sono esauriti da tempo e che occorre sviluppare la produttività attraverso le politiche di sistema.

L’autista bloccato nel traffico, a 14 km/h, può fare poco per essere più produttivo, nonostante tutto quello che si è fatto in questi anni.

A questo punto bisogna riconoscere che il TPL è un settore allineato con gli altri comparti produttivi, e che le generali condizioni di lavoro, dei giovani in particolare, sono spesso sotto la soglia del trattamento considerato normale.

Bisogna, di conseguenza, chiudere una fase che è durata troppo a lungo: fino ad oggi le aziende non hanno voluto prendere atto di tutto questo, producendo gravi danni nel sistema delle relazioni sindacali.

La necessità di nuove relazioni sindacali nel settore: la fine di un sistema relazionale protetto dagli interventi della politica e degli Enti proprietari

Il sistema relazionale nel settore deve essere interamente ricostruito, il trascinamento delle vecchie logiche e la ricerca esasperata del contenimento del costo del lavoro, hanno prodotto guasti profondi e rotture traumatiche.

In un sistema fragile come quello del TPL, nel quale il conflitto alla fine si scarica sempre sui cittadini che utilizzano i servizi, c’è veramente bisogno di un profondo ripensamento.

Deve essere definitivamente abbandonato lo schema perseguito dalle aziende e dalle loro associazioni nel rapporto con la politica e con gli enti proprietari.

Di norma, infatti, quando necessitano risorse aggiuntive si tende a provocare il conflitto sociale e si porta il conto ai terzi che devono pagare.

È un modo primordiale di conduzione delle relazioni sindacali, da parte delle imprese, che impone costi altissimi ma che, fino ad oggi, ha sempre funzionato.

Così è stato anche nel 2003: dopo una rottura senza precedenti della pace sociale nel settore, alla fine le aziende hanno avuto quello che volevano.

Così oggi si tenta di fare nel contenzioso in corso sui trattamenti di malattia: la politica toglie alle aziende, le quali, con la consueta procedura e senza curarsi delle conseguenze, non riconoscono il contratto e le leggi, togliendo quote di retribuzione ai lavoratori.

Anche stavolta si persegue l’esasperazione del conflitto, sconvolgendo le relazioni sindacali.

Vorremmo non dover più essere costretti a rispondere a questi comportamenti: aspettiamo la fine di una gestione che trascina in una realtà profondamente cambiata i vizi del passato.

Occorre voltare pagina riqualificando finalmente le relazioni sindacali, anche come unica risposta credibile alla consueta discussione sullo sciopero e sulla legge 146/90.

Se le aziende e le loro associazioni non ce la fanno, andrebbero aiutate a cambiare.

I Sindaci, le Regioni, il Governo dovrebbero avere interesse ad un sistema di relazioni sindacali che non produca conflitto permanente.

Per fare questo è necessario che in queste aziende che forniscono un servizio fondamentale si cambi idea sul lavoro: il risultato dello sviluppo, della qualità, del nuovo ruolo del trasporto pubblico non si ottiene considerando il lavoro come un costo da comprimere oltre i limiti o da usare come massa d’urto nei confronti della politica e delle proprietà delle aziende.

Nei servizi il lavoro è parte essenziale dei risultati che i cittadini si aspettano, il riconoscimento del valore e della qualità del lavoro è condizione decisiva per qualsiasi obiettivo di sviluppo, la capacità e la professionalità del lavoro rappresentano il capitale principale delle imprese di trasporto pubblico.

Ecco perché le aziende devono cambiare radicalmente approccio per ciò che riguarda i rapporti con i lavoratori e con le loro rappresentanze sindacali.

Per quanto ci riguarda abbiamo sempre dichiarato disponibilità al cambiamento e lo sosteniamo concretamente con le nostre proposte e la disponibilità al confronto.

Non ci sembra di chiedere molto se, per affrontare i problemi aperti, ci aspettiamo dalle controparti la decisione di chiudere, finalmente, con una pratica di relazioni sindacali che ha prodotto già troppi danni.

 

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