TERAMO. «Il presidente della giunta regionale deve dire in maniera chiara, e una volta per tutte, se vuole continuare a fare il mediatore con il governo oppure rappresentare tutti gli abruzzesi. Presidente, datti una mossa!».
Gianni Di Cesare non lo cita mai per nome, Gianni Chiodi, ma al presidente della Regione riserva la parte più decisa e forte del suo comizio. Ad ascoltare il segretario abruzzese della Cgil, ieri intorno a mezzogiorno, c'è una piazza Martiri della Libertà troppo piccola per contenere tutti quelli che hanno risposto all'appello del sindacato per una manifestazione regionale, nel giorno dello sciopero generale nazionale, nella città del governatore e in un posto che, insiste Di Cesare, «il presidente della giunta regionale conosce molto bene». Qualcuno, come i giovani aquilani del comitato «3.32», poco prima, aveva preso alla lettera il valore simbolico della scelta di Teramo, affiggendo sotto casa di Chiodi, in piazza Sant'Anna, uno striscione con su scritto «Dall'Aquila con rabbia-Dimissioni», che poi è stato fatto togliere dalla polizia.
Che fossero 10 mila, come sostiene la Cgil, o 4 mila come dice invece la questura, quelli che, ieri, hanno sfilato per il centro storico di Teramo erano moltissimi, tanto da far dire a Di Cesare dal palco: «Questa è la più grande manifestazione di protesta degli ultimi anni in Abruzzo». Lo sciopero, dice ancora il segretario regionale, è andato benissimo anche in Abruzzo: «Per quanto riguarda l'adesione nelle fabbriche, in quelle più grandi si è attestata oltre il 40%, mentre in quelle medie e piccole è oscillata mediamente tra il 60 e il 70 per cento».
La protesta di ieri aveva due bersagli principali e uno secondario ma non troppo. I primi due: il governo nazionale e la sua manovra finanziaria «iniqua, che liberalizza i licenziamenti, non sostiene lo sviluppo e toglie il futuro ai giovani»; e il governo regionale che, grida Di Cesare dal palco del comizio finale, «deve decidersi, quando va a Roma, a porre la questione dell'unicità del caso-Abruzzo, dopo il terremoto, e della necessità di destinare alla nostra regiona risorse superiori a quelle delle altre regioni».
Il terzo bersaglio? La Cisl e, soprattutto, il suo segretario nazionale, Raffaele Bonanni, abruzzese di Bomba, accusato di essere troppo accondiscendente verso il governo Berlusconi e verso un altro abruzzese, Sergio Marchionne, l'ad della Fiat. La polemica anti-Cisl (e in tono minore anti-Uil) punteggia come un basso continuo slogan e cartelli del corteo («Chi non salta della Cisl è, è», ritmano i giovani che reggono lo striscione della Fiom di Pescara), e poi anche gli interventi dal palco del comizio, in particolare quello finale di Emilio Miceli. «In un retrobottega, di notte», accusa il segretario nazionale dell'Flc, il sindacato delle comunicazioni della Cgil, «il governo, Confindustria, la Cisl e la Uil hanno deciso, con l'articolo 8 della legge di manovra, di cancellare lo Statuto dei lavoratori, la Costituzione dei lavoratori».
Su questo stesso registro, l'intervento di Antonio Teti, un delegato Fiom della Sevel di Atessa. «Sull'articolo 8 della manovra», dice l'operaio dell'azienda Fiat, «è in discussione la democrazia. Non possiamo mollare. La Cgil non deve indietreggiare. Difendiamo i nostri diritti mandando a casa il governo».
Altre voci si alternano sul palco. Quella di Mauro Pettinaro, del Consiglio nazionale degli studenti universitari, («Siamo la generazione più precaria di tutte»). Quella del sindaco di Gessopalena, Antonio Innaurato, che denuncia i tagli ai Comuni, piccoli e grandi, che «compromettono la stessa identità storica e culturale delle comunità». E quella di Camillo Gelsumino dell'Unione italiana lotta alla distrofia muscolare: «Adesso stanno uccidendo i lavoratori e i loro diritti, ma hanno già ucciso il sociale. Dopo di noi, i prossimi sarete voi. E' ora che qualcuno si ribelli alla dittatura dei mercati finanziari. Cosa aspettate a farlo?».
Alla fine, Di Cesare tira le fila di queste e di altre proteste, spiegando la ricetta della Cgil per affrontare la crisi del debito e della mancata crescita.
«Noi», dice il segretario reginale della Cgil, «proponiamo una manovra delle entrate contro quella dei tagli alla spesa, che ci costringe a inseguire sempre il debito e a non creare mai la crescita. Quindi: tassazione di grandi patrimni e grandi ricchezze, e tassazione dei capitali scudati rientrati dall'estero. Siamo sicuri di realizzare così un saldo di bilancio di 75 miliardi, molto superiore a quello proposto dal governo. Di questi 75 miliardi, 25, diciamo noi, vanno reinvestiti per creare la crescita».
«Ma la condizione per fare tutto questo» conclude Gianni Di Cesare, «è che il governo Berlsconi vada a casa».
Precari e cassintegrati marciano in corteo «Non so che cosa sia il futuro»
TERAMO. «I rappresentanti dello Stato italiano se ne dovrebbero andare a casa». Maurizio Di Paolo ha 28 anni e fa l'operaio all'Alfagomma di Sant'Atto, una frazione di Teramo.
Non è un dirigente sindacale, è uno dei tanti che hanno sfilato, ieri mattina, da largo Madonna delle Grazie fino a piazza Martiri della Libertà.
«L'articolo 8 della finanziaria», aggiunge Di Paolo, «che permetterebbe i licenziamenti in deroga cosa c'entra con la manovra? Nell'azienda dove lavoro gli effetti della crisi si stanno vedendo».
Le storie personali dei Cipputi punteggiano un corteo ricco di slogan, striscioni e cartelli, come sottolineature private della protetsa collettiva che va in scena.
Negli striscioni e nei cartelli la rabbia e l'indignazione sono, appena un po', stemperate dall'umorismo: «La scuola rende liberi, il precariato no»; «Meno bombardieri più tranvieri, la cricca degli affaristi non usa il tram»; «Con questa finanziaria è come sparare sulla Croce Rossa».
Fino a quel «Figli di un Dio minore», l'unico striscione che non utilizza il rosso (i caratteri sono azzurri su fondo bianco) che chiude il corteo.
Anna Pastucci lavora all'ospedale di Atri. «La struttura sta chiudendo», dice mentre sfila nel corteo. «Il nostro ospedale muore e nessuno fa niente per impedire che questo accada. Per Atri è una risorsa unica e non può sparire come se niente fosse».
Rolando Di Donato, impiegato del Parco nazionale Gran Sasso-Monti della Laga, racconta così la sua situazione: «In tre anni ho perso il 10 per cento dello stipendio, cioè 150 euro in meno. Adesso guadagno 1.050 euro al mese e ho tre figli da mantenere. La maggior parte dello stipendo se ne va per gli abbonamenti da fare per l'autobus».
«Sono molto preoccupato per il futuro», conclude Di Donato. «Anche per i giovani non riesco a vedere speranza».
Per Loredana Frelli il presente è quello assai precario del lavoro che non c'è più e della cassa integrazione che non è eterna. lavorava alla Perla, Loredana Frelli, un'azienda di abbigliamento intimo di Roseto. «Lo stabilimento ha chiuso mandando a casa 87 lavoratori», dice l'operaia in cassa integrazione. «Noi siamo in cassa integrazione da tre anni e siamo in una situazione disperata».
Ugo Boschetti arriva dall'Aquila. E' in pensione da diversi anni. E' uno dei tanti iscritti al sindacato dei pensionati della Cgil che, ieri, hanno sfilato nel centro di Teramo. «Sto sfilando», spiega, «perché non condivido la manovra e perché voglio essere solidale con i lavoratori e con i giovani».
Dall'Aquila arriva anche Paola Giammaria, un'insegnante. «Sono precaria alla scuola media di Pescasseroli», dice, «e non so cosa pensare per il mio futuro lavorativo».