ROMA Non c’è un giorno di riposo, per il Pd. Ieri, per dire. Neppure il sollievo di adoperarsi da facilitatori e promotori del Napolitano bis al Quirinale e già riscoppiano i guai. Le facce sono stanche, tirate. Il Pd ha i suoi vertici acefali e veleggia verso una (o più) scissioni. Partiamo dal caos vertici. Bersani si è dimesso (e, con lui, l’intera segreteria, di diretta emanazione del segretario), annuncia il vice Enrico Letta davanti alle tv. E aggiunge: «Nel Pd c’è da fare una grande pulizia». I lettiani garantiscono di essere stati leali e fedeli fino alla fine con il segretario dimissionario. Il guaio è che la stessa cosa dicono pure tutti gli altri, renziani esclusi. Chi guiderà il partito, in questa fase, considerando che Bersani prova a rassicurare («Non andrò all’estero»)? Lo stesso Letta, che deve la sua elezione all’Assemblea nazionale, la cui presidente Rosy Bindi si è dimessa a sua volta? E se Letta andasse al governo?
SEGRETARIO PROVVISORIO
L’ipotesi, adombrata da Area dem, è quella di un segretario provvisorio che traghetti il partito al congresso come accadde con Dario Franceschini quando si dimise Walter Veltroni (2009). E’ evidente che il congresso del Pd, già previsto per ottobre, ci sarà, ma in teoria anticiparlo non si può proprio negli ultimi sei mesi: occorre chiudere il tesseramento, convocare i congressi di circolo, formalizzare le candidature, stabilire data e regole delle primarie, formare le liste, fare le primarie. Impossibile, anche volendo, prima di metà luglio. Un tempo quasi biblico: di mezzo ci sono le consultazioni e la nascita di un governo del Presidente che il Pd “deve” votare. Alle prime andranno i capigruppo di Camera e Senato, Speranza e Zanda, al secondo potrebbe andare Letta, appunto. E Bersani? «Formalmente è ancora segretario e se confermerà le dimissioni dovrà farlo davanti a un organismo del partito», specifica un fedelissimo, il deputato Nico Stumpo. L’organismo preposto è la Direzione nazionale e si riunirà con ogni probabilità venerdì prossimo.
LE TENSIONI
Sarà lì che scoppierà la grana: tra chi vorrà nominare un “direttorio”, cioè una reggenza collegiale con un rappresentante per area (cioè corrente), per un massimo di sette/otto persone, come chiedono soprattutto i Giovani turchi; chi pensa a un reggente unico (Area dem e veltroniani); e chi – sorpresa nelle sorprese – chiederà a Bersani di restare e di farsi garante della guida del partito fino al congresso, però con una segreteria «molto più collegiale» (Gero Grassi a nome degli ex-Ppi). Le incertezze e faide interne sono nulla, però, rispetto l’altro incubo, quello della (ennesima) scissione. Il ministro Fabrizio Barca, che poi preciserà e ritratterà in parte, e Sergio Cofferati lanciano un appello via Twitter per votare Rodotà (o Bonino). Nichi Vendola non sta nella pelle e, dopo aver gridato ai quattro venti il «votiamo Rodotà» di Sel, convoca una conferenza stampa per lanciare una «assemblea di popolo per un nuovo percorso di rifondazione della sinistra». Parole vecchie, forse, ma otre nuovo: l’appuntamento è per l’8 o 12 maggio a Roma con movimenti, partiti, associazioni. Potrebbe arrivare per quella data, specie se il governissimo sarà già nato, un pezzo cospicuo di Pd: sinistra interna (Vita e altri, ma non i Giovani turchi), pezzi di Cgil (Cofferati, ma non Epifani), pezzi di bersaniani specie sui territori (Emilia, Piemonte, Toscana, con a capo il governatore Rossi). Con un partito che, invece, Matteo Renzi sarà costretto, pur senza volerlo troppo, a prendersi, correndo alle primarie per poi candidarsi a premier (ieri ha detto «Il Pd deve cambiare davvero. Ci proveremo»). Resterà tutta l’area degli ex-Margherita (mentre gli ex-Popolari potrebbero andarsene via in un nuovo partito neo-cattolico), più veltroniani, liberal e tutti gli altri. Giovani turchi compresi, che lancerebbero contro Renzi un loro uomo.
Il rischio di spaccarsi in tre: patto Renzi-giovani turchi
Vecchia guardia rottamata, ora il governocon il Pdl.
ROMA E ora nel Pd litigano pure su chi dovrà salire al Quirinale per le consultazioni. «Mica possiamo ripresentarci con Bersani, Letta e Franceschini, dopo quello che è successo è impensabile lasciar fuori Renzi», attacca Matteo Orfini, il giovane turco più battagliero della compagnia. Il Pd uscito dalla campagna del Colle è un partito dilaniato, diviso, frantumato. E rischia di esserlo ancora di più al momento del voto di fiducia al governo di larghe intese, finora sempre aborrito, temuto, ripudiato. «Tutti quei parlamentari che hanno bocciato Marini e Prodi e hanno votato Rodotà, al momento di dire sì al governo con il Pdl usciranno di nuovo allo scoperto e saranno dolori», profetizza un deputato della ex maggioranza.
NUOVI TIMORI
E siccome la fiducia a un governo è la prova del nove sulla compattezza di un partito nonché la rivelazione se qualcuno ha altri propositi, già in tanti prevedono che il varo del governo Pd-Pdl possa provocare l’esplosione finale dei democrat con la formazione magari di tre gruppi parlamentari diversi e distinti: uno di sinistra sinistra che ha già fatto le prove generali con la secessione di Vendola; uno che dà la fiducia al governone; un terzo che non va a sinistra con Vendola ma che neanche è d’accordo con l’operazione Pd-Pdl. «Chi l’ha detto che il Pd è per fare un governo con il Pdl?», chiede polemicamente Orfini.
Spostato l’obiettivo su Renzi e renziani, il discorso non si presenta molto diverso. Avevano puntato su Prodi quasi fosse il loro candidato, ma gli è andata male, tanto che Matteo ne ha preso subito le distanze. Renzi, naturalmente, non ci sta a passare con sconfitto. «Anche se hanno cercato di farci passare per sconfitti o per affossatori di Prodi, in realtà noi renziani abbiamo fatto bingo: la sinistra se ne va, così abbiamo un problema in meno, ora si aprirà una sana competizione per la leadership all’insegna di un profondo ricambio generazionale», spiega Angelo Rughetti, renziano di prima fascia. Il sindaco di Firenze si sente sempre più in corsa, solo che adesso non dovrà più scalare il vertice contrapposto a un granitico fronte rappresentato dalla componente ex diessina, ma dovrà più che altro raccogliere i cocci lasciati sul terreno, stando attento a che la ”ditta” non vada dispersa più di tanto. «Matteo rischia di ereditare terra bruciata», aveva profetizzato giorni fa un altro renziano. Lui, il rottamatore, non ha alcuna intenzione di lasciare il partito, anzi, «il marchio Pd è tuttora valido, è buono e ha il suo appeal», ha confidato Renzi ai suoi. Dunque?
L’ACCORDO
Si intravedono parecchi punti di contatto tra giovani turchi, la componente interna più dinamica del vecchio ceppo diessino, e giovani renziani. Al punto che quel famoso «patto generazionale» per far fuori la vecchia guardia e controllare poi il partito sembra già operante, nei discorsi e nei comportamenti. Non è sfuggito che durante e attraverso la campagna del Colle, turchi e renziani hanno di fatto dato vita a un piccolo Midas (dall’albergo romano che portò alla defenestrazione di De Martino e all’avvento di Craxi), facendo cadere uno a uno Marini, Prodi, e anche i possibili papabili Amato, D’Alema, Finocchiaro, Violante. «Dobbiamo azzerare il vertice che ha condotto il partito in questo stato, e procedere con uno svecchiamento totale e generale», l’indicazione di Andrea Orlando, leader dei giovani turchi. E la vecchia guardia, come reagisce? Non certo deponendo le armi. L’idea è di farla finita con il Pd della «ruota che gira», delle primarie, «quel partito ha fallito», e tornare all’antico: «Ci vuole un partito con le sue brave correnti, il suo bravo caminetto, i suoi luoghi di compensazione, solo così ognuno potrà sentirsi a casa propria», spiega Beppe Fioroni per parte ex ppi. Una sorta di ”Pd rifondato” o di ”Rifondazione Pd”, per i quali i fautori hanno anche individuato il possibile leader da contrapporre a Renzi: Guglielmo Epifani, che in questi giorni è stato al fianco di Bersani, ha difeso la linea, «si è comportato insomma in maniera seria», dice Sergio D’Antoni, che poi attacca: «Io con Renzi non andrò mai, se prima lo guardavo con interesse, dopo quello che ha fatto a Marini c’è incompatibilità».