Improvvisano una specie di servizio d’ordine per proteggere la quiete dell’ex segretario, e non ci sono distinguo fra bersaniani e renziani, fra vincitori e vinti, fra la nomenklatura di un tempo e le nuove leve. Per un giorno il Pd mette da parte le divisioni e ritrova la pace. Cancella i livori e riscopre la solidarietà di partito. Magari durerà poco, magari fra qualche giorno tutto sarà di nuovo come prima e i democratici torneranno a scannarsi. Ma oggi è così.
Il primo a farsi vivo è Matteo Renzi. Glielo impone il ruolo, lo esige il protocollo, lo suggeriscre un certo spirito cavalleresco. Però non si accontenta di battere il record di velocità con tweete: «Un abbraccio fortissimo». Appena dopo l’ora di pranzo chiama Vasco Errani, il presidente della Reigone Emilia che sta già al capezzale di Bersani: «Parto da Firenze e vengo». Nessuno ha niente in contrario, neppure la moglie di Pierluigi. Sono i medici a dire no: «Adesso lo portiamo in sala operatoria e ci rimarremo fino a notte fonda. Niente visite».
«TUTTI CON TE»
Bersani ha guidato il partito per quasi quattro anni, ha lasciato un segno profondo, ora che è prigioniero del reparto di neorochirurgia e deve fare i conti che le ingiurie della salute tutti glielo riconoscono, anche quelli che lo hanno osteggiato, combattuto, detronizzato. Anche per questo Renzi non molla. Per il giorno dell’Epifania ha in programma di assistere alla sfilata dei Re Magi per le vie di Firenze: «Ma appena mi fate un cenno, parto» dice a Errani. Ed è una sorta di mano tesa, di gesto di distensione.
«Siamo tutti con te» scrive Fassina. «Siamo tutti con te» scrive pure Marianna Madia. I due stanno su fronti opposti, il primo ha appena sbattuto la porta andandosene dal governo in polemica con Renzi, la seconda è fra i prediletti del sindaco di Firenze, ma dicono la stessa cosa, con le stesse parole. Certo, non sono parole complicate, nei momenti drammatici riesce difficile scovare formule originali, però è vero che dal diluvio di tweet, di dichiarazioni ufficiali, di post su facebook affiora un inedito affetto bipatizan per l’ex capo.
Quando i medici portano Bersani in sala operatoria è ormai buio. Per il gruppo che presidia l’ospedale comincia l’attesa e ai più vecchi viene in mente quella del 1984 a Padova, quando sotto i ferri c’era Berlinguer. Quella volta andò male, stavolta i volti sono più distesi e l’ottimismo più gistificato. Altri ricordano il ricovero di Alessandro Natta a Perugia, 1988. Se la cavò, ma si dimise da segretario del Pci «incalzato» com’era dalle giovani leve guidate da Achille Occhetto. Si disse perfino che il malore era frutto delle ansie e delle tensioni che dilaniavano il partito.
Ecco, nessuno vuole che si possa dire la stessa cosa anche oggi. Nessuno può insinuare il dubbio che Bersani stia pagando in qualche modo le amarezze di un anno di contrasti, di battaglie intestine, di non vittorie e di sconfitte. Forse anche per questo l’affetto è tanto unanime, tanto trasversale, tanto ostentato. «Torna presto, abbiamo bisogno di te» è il messaggio di Cuperlo. Un po’ come dire che non si può continuare a guardare il partito come il luogo dello scontro fra rottamati e rottamatori. Tutti sono utili, tutti sono importanti.
AMICI ED EX AMICI
Arrivano i messaggi di chi non è mai stato con lui, come la Serracchiani. Arrivano gli auguri di chi stava con lui e adesso non ci sta più, come Alessandra Moretti e Piero Fassino.
Arrivano gli abbracci di quelli che non hanno mai smesso di rimanergli al fianco come Rosy Bindi e Anna Finocchiaro, o Flavio Zanonato: «Non mollare, abbiamo bisogno di te».
Arriva la solidarietà di chi è stato in qualche modo una sua vittima, come Veltroni. Arriva la preoccupazione di chi lo ha sempre guardato con diffidenza, essendone ricambiato, come Romano Prodi.
Arrivano parole buone anche dall’estero (Hollande, Di Rupo) e dagli avversari di casa nostra. Ma in qualche modo contano poco, o contano meno di questo coro democratico che per una volta canta lo stesso spartito. Come se Bersani, da un letto d’ospedale, fosse riuscito a realizzare quello che in anni di segreteria non era mai riuscito a fare: tenere unito il partito.
L’anno nero del leader gentiluomo tra vittoria sfumata e beffe M5S
ROMA La vera politica è anche passione. Autentica, forte, ingombrante, e perfino rischiosa. L’anno orribile di Pier Luigi Bersani, che in queste ore combatte la più difficile battaglia della sua storia umana, è un tormentato viaggio nel labirinto della politica interpretata a tutto tondo come «una scelta di vita», il titolo di una celebre biografia scritta dal compagno Giorgio Amendola.
IL VIATICO DI MONTI
Il 2013, infatti, doveva essere per Bersani l’anno della consacrazione e del pieno riconoscimento di un lungo e faticoso lavoro: tutto, a partire dai sondaggi, lasciava pensare che il segretario del Pd avrebbe vinto le elezioni e sarebbe andato a palazzo Chigi. «Questo sarà il tuo posto» gli aveva detto Mario Monti, ricevendolo nell’ufficio del capo del governo poche settimane prima del voto. E invece nell’arco di poco tempo, la politica a volte si gioca sul filo dei minuti e delle ore decisive, tutto è precipitato. Bersani e il Pd non hanno vinto le elezioni, e il leader della possibile colazione di centro-sinistra, arrivato all’ultimo miglio del percorso stremato nel fisico e nella testa, ha perso lucidità e consensi. Fino a commettere errori imperdonabili per un uomo della sua esperienza e delle sue capacità. Si è ostinato a richiedere, ed ottenere, da Giorgio Napolitano, l’incarico per formare il nuovo governo; ha tentato inutilmente, anche con umiltà e subendo l’arroganza dei neofiti parlamentari Cinque Stelle, un accordo con il ciclone Grillo; si è incartato in una complicatissima elezione del nuovo presidente della Repubblica, bruciando due cavalli di razza del centro-sinistra come Franco Marini e Romano Prodi, per poi chiedere, con responsabilità e in compagnia di Silvio Berlusconi, a Napolitano di fare un secondo mandato.
In questo travagliato percorso, Bersani non è risparmiato neanche un secondo. Ha girato l’Italia in lungo e in largo, facendo una campagna elettorale a tappeto, nelle piazze vere e virtuali, concedendosi soltanto la tregua di una fumata di sigaro e di una cena di buona cucina emiliana, due semplici e genuini piaceri privati dell’uomo Bersani.
SENZA RISPARMIARSI
E ha messo a rischio anche la sua salute, come il fratello medico ha sottolineato con preoccupazione proprio durante la campagna elettorale. Poi, digerita con signorilità la sconfitta, preso atto che il Pd è diventato un partito di tribù tendenzialmente portate al cannibalismo, e risolto il problema politico dell’inizio di legislatura con la riconferma di Napolitano, Bersani ha fatto un passo indietro. Dimissioni irrevocabili e largo a una nuova generazione, quella di Matteo Renzi, al quale l’ormai ex segretario ha solo raccomandato, con il suo sorriso da amico del bar, di «non esagerare» nel fare piazza pulita della vecchia guardia del partito.
D’altra parte Bersani si è ritrovato a fare il segretario del Pd, nel 2009, proprio durante una delle tante fasi della turbolenza di un partito prigioniero di «capi e capetti» (la definizione è di Alfredo Reichilin), delle loro sfrenate ambizioni prive però della bussola che aveva guidato, nel bene e nel male, la grande comunità del Pci dove Bersani è cresciuto. Il suo tratto di gentiluomo e il suo straordinario pragmatismo, si è nutrito del terreno fertile di un’Italia sana, autentica e generosa. Come lui.
Siamo a Bettola, in provincia di Piacenza, dove la carriera politica di Bersani inizia appunto con uno durissimo scontro, da bambino. La famiglia di Pier Luigi è fatta di gente semplice e vera, cattolici doc, e lui fa il chierichetto, fino a quando organizza uno sciopero della categoria contro il parroco troppo conservatore e troppo distante dal mondo del lavoro.
PEPPONE E DON CAMILLO
Siamo, se ci pensate, nei film di Peppone e don Camillo, e da allora Bersani, oggi un uomo di 63 anni, cresce, passo dopo passo, con un percorso lineare, trasparente, non con un salto nell’olimpo dei potenti attraverso qualche comparsata in tv. Fa l’amministratore locale, viene promosso presidente della Regione Emilia Romagna, arriva a Roma e soltanto nel 1996 diventa per la prima volta ministro, dell’Industria, con il primo governo Prodi. Il volto politico di Bersani è molto profilato, quasi unico in un universo antropologico di uomini politici diventati anonimi e cresciuti con lo stampino della tv. Lui è un pragmatico, ha una buona competenza nell’economia reale del Paese, annusa e cavalca l’onda di una modernizzazione della sinistra prigioniera dei tabù e dei veti del conservatorismo sindacale. E sfida il potere delle caste professionali, e non solo, con una serie di aperture verso il mercato e di rotture di antichi e insostenibili privilegi. In fondo, proprio per il suo profilo Bersani sembra fatto per la politica sul versante del governo, dell’amministrazione, più che dalla trincea del partito. Ma qui si è ritrovato, lo ripetiamo, per circostanze eccezionali, e pur avendo assunto il ruolo di leader non ha mai perso i tratti essenziali del suo carattere, non si è mai sfigurato al servizio del potere per il potere. E’ rimasto un personaggio semplice, sorridente, ironico, pronto ad accogliere senza rancori le battute al vetriolo e le imitazioni del comico Maurizio Crozza. Che cosa aggiungere oltre al ricordo del cronista che ha impressa nella sua memoria la tragica immagine di Enrico Berlinguer colpito da un ictus fatale durante un comizio a Padova? Nulla, se non tre parole: Auguri, caro Bersani.