La coincidenza tra la crisi economica più grave dal dopoguerra e il sisma più devastante del nuovo millennio hanno messo in crisi la città e la regione. Senza interventi decisi, l’Abruzzo rischia di diventare la Grecia d’Italia
Avrebbe gettato sul lastrico qualunque regione, anche la più avanzata economicamente, la coincidenza tra la crisi economica più grave dal dopoguerra e il sisma più devastante del nuovo millennio. Figuriamoci un pezzo d’Italia appenninica qual è l’Abruzzo, terra di montagne e paesi semispopolati dove puoi ancora trovare tracce visibili della civiltà contadina e pastorale travolta dalla modernità. In diversi borghi non sopravvive più nulla: quasi impossibile trovare persino un negozio di generi alimentari o un bar, al punto che ci si chiede come facciano i rari abitanti rimasti persino a trovare il necessario per vivere.
Nelle new town-dormitorio costruite a margine dei paesi terremotati e tutto attorno alla città capoluogo, a cingerla come una corona di spine, è il deserto: si esce la mattina per andare a scuola o a lavorare e si rientra nel tardo pomeriggio o a sera, a volte sobbarcandosi decine di chilometri di strade di montagna. Il centro dell’Aquila è ancora imbalsamato, fermo alle 3 e 32 di quel tragico 6 aprile del 2009, quando il sisma ne decretò la morte alla stregua di un infarto improvviso.
Si lavora molto a rilento, almeno nella cosiddetta zona rossa, e il risultato paradossale è quello di una città il cui cuore è fermo ma vive nelle sue periferie. Fuori dal centro storico, infatti, sono duemila i cantieri aperti: si lavora ad abitazioni private e palazzi, nonché alle strutture pubbliche o religiose. Ultimo a essere inaugurato è stato l’edificio della Prefettura. Nelle strutture ospedaliere dell’ex ospedale psichiatrico di Collemaggio, su un colle al fianco della basilica – anch’essa in ristrutturazione – i medici continuano invece a ricevere i pazienti nei container allestiti dalla Protezione Civile.
Nonostante attorno alla città sia tutto un fiorire di gru e lavori in corso, l’occupazione all’Aquila è in continua decrescita, i giovani hanno ripreso a emigrare a ritmi da dopoguerra, e persino l’università – fiore all’occhiello della città – terremotata come tutto il resto, è ora in ambasce. Visto l’esiguo stanziamento nella legge di stabilità appena approvata, il rischio è che anche quel po’ di economia che ruota attorno al disastro del terremoto – quella che la giornalista canadese Naomi Klein ha definito “shock economy” – possa crollare miseramente.
Il risultato è che l’Aquila può, seriamente, implodere, trascinando con sé anche un pezzo della regione. Un piccolo segnale di inversione di tendenza è arrivato nei giorni scorsi, quando è stata inaugurata la nuova sede dell’Alenia, rimessa in piedi in tempi quasi record visti i ritmi della ricostruzione. Nel nuovo edificio costruito secondo i più moderni criteri antisismici, verranno trasferiti i 307 dipendenti della Thales Alenia Space, ed è già un buon segno che l’azienda di Finmeccanica abbia scelto di rimanere a L’Aquila nonostante ledifficoltà invece di trasferirsi armi e bagagli altrove.
Ma le crude cifre dell’occupazione ci dicono che si tratta di una rondine che è ben lungi dal far primavera. Per un’impresa di Stato – controllata dal ministero del Tesoro – che resiste, sono molte di più quelle che invece chiudono o riducono drasticamente personale e attività. Da gennaio a ottobre di quest’anno, infatti, il ricorso alla cassa integrazione è letteralmente esploso, pure rispetto a un anno già catastrofico qual era stato il 2012: sono più di 30 milioni le ore autorizzate in tutta la regione, quasi quattro milioni in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un balzo in avanti del 40,3 per cento in un anno. Secondo Sandro Giovarruscio, della segreteria regionale Cgil, questo dato è persino sottostimato, in quanto le autorizzazioni ai pagamenti della cassa integrazione in deroga sono notevolmente in ritardo per mancanza di risorse.
In buona sostanza, sostiene il sindacalista, se le pratiche di concessione della cig da parte delle istituzioni fossero più solerti, molti più lavoratori rispetto ai 17.338 attualmente in cassa a zero ore avrebbero diritto al sussidio. Gli ultimi a vedersi autorizzato il ricorso agli ammortizzatori sociali sono stati 636 operai della Magneti Marelli di Sulmona, mentre all’Aquila il polo tecnologico è in via di progressiva dismissione, fatta eccezione naturalmente per l’Alenia. Non meno devastanti sono i dati che riguardano la disoccupazione giovanile, che supera il 40 per cento, e il calo del Pil, che in cinque anni ha perso il 7,2 per cento. Secondo la Caritas, la povertà sarebbe in crescita vertiginosa nell’intera regione e il 68 per cento delle persone che chiedono aiuto all’associazione lo fanno perché hanno perso il lavoro e dunque un reddito sufficiente a vivere.
In buona sostanza, se l’Abruzzo non è diventato la Grecia d’Italia poco ci manca e per questo, dice Umberto Trasatti, segretario generale della Cgil abruzzese, la sua rinascita dovrebbe diventare una priorità per il Governo italiano, cosa che invece non è stata. Si comprende allora la preoccupazione degli enti locali e dei sindacati, che vedono un intero sistema economico e produttivo sprofondare senza essere sostituito da null’altro. “In questo momento l’economia è ferma e ci sono pure dei tappi che non consentono di ripartire”, mi spiega Trasatti. La burocrazia che rallenta tutto, i soldi per la ricostruzione insufficienti, l’incapacità di pensare a investimenti per il rilancio: sono questi i “tappi” che inchiodano l’economia locale. “Bisognerebbe creare un’occupazione nuova, di qualità e stabile”, dice ancora il sindacalista, che insiste su un punto: “L’unico modo per farlo è destinare una parte dei fondi per ricostruire L’Aquila al sostegno alle attività produttive”.
La Cgil va ben oltre la cosiddetta legge Barca, che prevede una destinazione del cinque per cento: per Trasatti essa “va portata almeno al dieci per cento”. Se è vero che il processo di ricostruzione dovrebbe procedere di pari passo con il rilancio dell’economia, va da sé che non potrebbe fermarsi, pena il collasso generale di un intero sistema economico. Il consiglio comunale dell’Aquila ha approvato all’unanimità un cronoprogramma che prevede un ritmo serrato di progettazione e apertura di nuovi lavori in modo da terminare tutto entro il 2019. Al momento i cantieri attivi sono duemila, appunto, e i trecento nuovi assunti grazie al “concorsone” della legge Barca sono in grado di approvare progetti a un ritmo da cento milioni al mese. In questo modo, vista anche dal punto di vista del lavoro, la ricostruzione sarebbe una manna per l’edilizia locale.
E invece si susseguono casi di cantieri con appena due o tre operai al lavoro per ogni turno, fallimenti di imprese e mancati pagamenti ai dipendenti, nonché piccole truffe e lamentele di proprietari e inquilini non informati dell’andamento dei lavori dagli amministratori di condominio, che a loro volta prendono il due per cento sul totale dei lavori. Questo anche per via delle magagne denunciate in un dossier dell’europarlamentare danese del gruppo di sinistra Gue, Soren Sorengaard: appalti concessi a imprese prive del certificato antimafia, eccessivo ricorso ai subappalti; in buona sostanza assenza di controlli a monte che inevitabilmente finiscono per ripercuotersi a valle, cioè sui lavoratori. Magagne che rischiano di obbligare il governo italiano a restituire 350 milioni di fondi comunitari spesi male.
Nella legge di stabilità sono stati trovati 600 milioni “freschi”, come ha detto la senatrice del Pd Stefania Pezzopane, che si è battuta perché la cifra prevista andasse oltre l’iniziale zero. A questi vanno aggiunti il miliardo e 200 milioni in sei anni stanziato dal governo Letta a luglio; somma che un ordine del giorno della solita Pezzopane approvato in commissione Bilancio impegna l’esecutivo a rendere tutti immediatamente spendibili. Se è stato scongiurato un blocco dei cantieri a febbraio, la coperta per Trasatti rimane però ancora troppo corta: “I costi stimati dal Comune per rispettare il cronoprogramma fissato ammontano a tre miliardi per il solo 2014”. Insomma, è come avere una Ferrari con il motore di una Cinquecento: si approvano i progetti a ritmo serrato e poi non si riesce a farli partire perché mancano i finanziamenti.
Con il fiscal compact e le emergenze che si susseguono – la bonifica della Terra dei fuochi, l’alluvione in Sardegna, l’Ilva di Taranto eccetera – secondo la senatrice Pezzopane non si poteva fare di meglio. Bisognerà sperare, in futuro, nella clemenza della natura per evitare che L’Aquila, come già molti borghi dell’interno, si trasformi in una città-fantasma.