La visita di Matteo Renzi a Pier Luigi Bersani, su al quarto piano dell’ospedale Maggiore di Parma, è un colloquio serale di un’oretta, un brusio inascoltabile anche per Vasco Errani e gli altri notabili del Pd che stanno fuori dalla stanza. L’ex segretario a letto, il neo segretario su una seggiola, nessuno tra i piedi. E quando tutto finisce, il visitatore se ne va così com’era venuto: sgusciando da un’entrata secondaria per evitare la calca dei cronisti e per evitare parole di troppo.
Renzi a Parma ci era già venuto una prima volta il 6 gennaio, il giorno dopo il ricovero di Bersani per un’emorragia cerebrale. Si era dovuto limitare, come tutti, a star fuori dalla terapia intensiva e a parlare con moglie e figlie del predecessore. Era stata una visita d’affetto. Questa volta c’è pure altro: il tentativo di spiegargli le ragioni dell’incontro con Berlusconi e magari strappare un mezzo consenso al proprio modus operandi così da indurre i bersaniani a usare toni meno aggressivi. Dicono che non sia andata come sperava. O almeno non del tutto.
IL CONFRONTO
I resoconti ufficiali usano le frasi fatte di sempre: «colloquio lungo e cordiale». Sulla cordialità non c’è motivo di dubitare: è la prima volta che i due parlano fitto fitto e senza asprezze dopo le scaramucce e le reciproche battutacce dell’ultimo anno e mezzo. Prima di partire da Firenze, il numero uno del Pd fa sapere di sentirsi in dovere di spiegare all’ex segretario i perché e i percome delle proprie mosse. Lo fa difendendo davanti a Bersani le sue scelte, mostrando fastidio per gli attacchi in arrivo dall’interno del partito.
Bersani non ha i toni di Stefano Fassina. Tuttavia non spalanca la porta al sindaco. Fa intendere che per lui accogliere Berlusconi fra le mura del al Nazareno è stato uno sbaglio. Soprattutto una mancanza di rispetto verso le «diverse sensibilità» del partito «di cui un segretario deve tener conto». Perché è specialmente questo il punto su cui il «vecchio» è in disaccordo col «giovane». Glielo dice coi toni gentili dovuti a un ospite in visita di cortesia, ma glielo dice: «L’uomo solo al comando non mi è mai piaciuto. Tranne Fausto Coppi».
IL PROFESSORE
Al mattino è venuto Romano Prodi a trovarlo. Insieme hanno riso e scherzato come si conviene a vecchi amici. Il professore gli ha perfino portato una scatola di sigari, per la gioia dei medici che seguitano a raccomandare al paziente vita regolare, niente fumo, niente stress. Renzi e Bersani, invece, amici non sono mai stati e non lo diventano certo in un’ora di chiacchiere riservate. Però Pier Luigi apprezza il gesto, e malgrado le divisioni vi legge una sorta di riconoscimento al proprio ruolo, alla propria autorevolezza, una mano tesa, un possibile inizio di dialogo.
Fra tre o quattro giorni i medici dovrebbero dargli il via libera: a parte i lancinanti mal di testa (ampiamente previsti) il recupero è buono, il cervello funziona come sempre, le «funzioni vitali» sono ottime, dunque potrà tornare a casa. E magari potrà tornare a dare organicità all’opposizione interna del Partito Democratico che al momento appare frastagliata e sparpagliata. Renzi è venuto a garantirsi, per lo meno, le buone maniere degli oppositori; Bersani, in qualche modo, gliele garantisce. Ma non molto più di questo. Non gli garantisce, per esempio, accondiscendenza sulla questione delle legge elettorale. Prende tempo, dice che vuole capirla meglio, vuole aspettare le reazioni altrui, vuole soprattutto accertarsi che alla fine non risulti un’operazione gattopardesca che nella sostanza ripropone il porcellum sotto mentite spoglie. Però nessun muro alzato, nessun pregiudizio. E così, prima della minestrina serale, prima di riprendere in mano il libro sul comodino («Mia suocera beve» di Diego De Silva), il congedo a Renzi è più affettuoso che ostile: «Buon lavoro, Matteo».