ROMA I tempi iniziano a stringere. Al ministero del lavoro si stanno apportando gli ultimi ritocchi a quella che non viene definita una riforma delle pensioni e nemmeno una manutenzione della legge Fornero, ma più semplicemente come una ulteriore modalità di lasciare il lavoro. Il meccanismo è quello del «prestito pensionistico» con la partecipazione di lavoratori, Stato e imprese già anticipato da Il Messaggero il 6 gennaio scorso. Ora però, inizia a trapelare qualche dettaglio ulteriore. Il progetto al quale lavora il ministro Enrico Giovannini, prevede la possibilità di lasciare il lavoro con due o tre anni di anticipo rispetto al raggiungimento dei requisiti previsti dalla riforma Fornero, ossia 66 anni e 3 mesi per l’anzianità o i 42 anni di contributi per quella anticipata. In questo secondo caso, tuttavia, ci sarebbe comunque un limite anagrafico di 62 anni. Lasciato il lavoro, però, non si andrà in pensione, ma si incasserà una sorta di vitalizio a termine della durata, appunto, di due o tre anni al massimo. Di quanto? E qui sta il primo nodo da sciogliere. Si parla di 700-800 euro al mese, ma l’entità definitiva dipenderà anche dal contributo delle imprese. Questa è la novità principale. Già oggi molte grandi aziende pagano uno scivolo ai lavoratori che lasciano l’impiego per coprire stipendio e contributi e accompagnare i dipendenti fino alla pensione. Questi contributi, nei piani del ministero, dovrebbero servire o ad aumentare l’entità dell’assegno mensile, oppure a ridurre il taglio della futura pensione. Infatti l’assegno mensile percepito essendo un prestito, nel momento in cui si matureranno i requisiti per la pensione, dovrà essere restituito. Per rientrare delle somme ottenute in anticipo, secondo le prime simulazioni, la decurtazione della pensione dovrebbe essere del 10-15%. Un altro nodo da sciogliere è il ruolo dell’Inps.
IL NODO INPS
L’Istituo avrà una perdita di contributi per il tempo in cui i lavoratori incasseranno il prestito. Lo Stato potrebbe essere chiamato a coprirli. C’è poi il tema del ruolo di finanziatore che l’Inps dovrà ricoprire e che non è esattamente il suo core business, ma potrebbe far leva sulle esperienze di cessione del quinto dello stipendio maturate dall’Inpdap, l’istituto di previdenza dei dipendenti pubblici assorbito dallo stesso Inps. Dal ministero del lavoro, comunque, fanno sapere che si sta lavorando per rendere «finanziariamente e giuridicamente sostenibile» tutto il meccanismo. Che sarà comunque «volontario». Non ci sarà obbligo per i lavoratori di accettare eventuali proposte da parte delle aziende, e nemmeno per le aziende ci sarà obbligo a concedere questa via d’uscita ai lavoratori. Servirà un accordo tra le parti. Questo tipo di flessibilità in uscita, secondo le intenzioni, non dovrebbe solo servire a risolvere strutturalmente il problema degli esodati, ma anche a fornire uno strumento in più ad aziende e lavoratori per gestire le problematiche legate all’aumento dell’età di pensionamento soprattutto per i lavori usuranti o pericolosi.