ROMA Elezioni a breve? Renzi premier subito? Elezioni in autunno? Matteo Renzi ha lasciato aperti tutti gli scenari, non ha chiuso la porta a nessuna ipotesi. Una sola cosa ha messo nel piatto, con forza e con convinzione: la legge elettorale. Nel senso che tutto dipenderà dall’esito che avranno la prossima settimana le votazioni sulla madre di tutte le riforme. Non a caso, nelle conclusioni, il segretario ha rinviato la discussione sul che fare rispetto al governo a una direzione per il 20 febbraio, quando si saprà se la riforma ha avuto disco verde o meno. «A quel punto ci saranno solo due alternative», ha detto Renzi ai suoi subito dopo la direzione, «o si rompe tutto, la legge elettorale non passa e quindi si va a votare di corsa anche con l’attuale legge» (in direzione ha parlato di Consultellum, la legge cambiata dalla Consulta); oppure, l’altra ipotesi, «si fanno sul serio e bene le riforme, si rovescia l’Italia come un calzino, e poi si va a votare forti di un risultato».
LA STRATEGIA
Il leader dem non si è fermato qui. Sa, ha visto, ha letto, che da qualche giorno è entrata nel dibattito politico la questione del Renzi 1, di un suo ingresso a palazzo Chigi senza passare dalle elezioni. Su questo, sempre con i suoi, il segretario si è espresso così: «Il tema non è il mio ingresso a palazzo Chigi». In che senso? Nel senso che il leader del Pd non sta né lavorando né trescando per andarsi a sedere dove oggi sta seduto Enrico Letta. Ma se un domani le insistenze si infittissero, se a chiedergli di andare al governo non fossero solo e principalmente quelli della minoranza del suo partito, allora forse lo scenario potrebbe cambiare. Ma la cosa riguarda il domani, non l’oggi. Con i suoi, quasi a prendersi una rivincita di tante pressioni di questi giorni, il segretario è stato duro rispetto a Letta, quasi sprezzante: «Gli ho dato quindici giorni».
IL LAVORO AI FIANCHI
Il lavoro ai fianchi della minoranza se l’è assunto invece Giorgio Tonini, autore di un libro al quale Renzi ha scritto la prefazione: «La minoranza ha fatto la battaglia congressuale sostenendo che il segretario non doveva occuparsi del governo, e adesso che fanno? Sostengono addirittura che il governo deve essere lui a guidarlo». Il tutto è avvenuto nel silenzio di tanti renziani, doc e meno veraci che siano, che non capendo quel che veramente ha in testa il capo, hanno preferito il silenzio assordante.
Solo Paolo Gentiloni ha detto la sua, terzo intervento dopo Renzi e Epifani, per esporre una sua personale teoria del pendolo politico: «Noi non dobbiamo identificarci con il governo, il Pd non deve certo buttarlo giù, ma neanche sovrapporsi, deve mantenere una iniziativa autonoma. Se no, visto il pendolo della politica italiana per cui chi governa perde poi le elezioni, non vorremmo che si dicesse che il Pd ha governato con questa maggioranza anomala e non certo identificabile con il Pd, e quindi la prossima volta toccherebbe agli altri».
ALL’ANGOLO
E Letta? Molti tra i presenti lo davano non all’angolo, ma deluso certamente sì. Non c’è stata quella sfida da molti annunciata se non pronosticata. Dopo l’intervento, il premier ha dovuto lasciare i lavori della direzione per impegni, ma anche per rompere quella solitudine che si è toccata con mano, come minimo per il fatto che nessuno è andato alla tribuna per difenderlo o per vantarne i risultati. Dalla minoranza, anzi, che fino a ieri ne era stata paladina, si sono levate voci del tipo «o Letta si dà una mossa o meglio andare alle elezioni» (Stefano Fassina), con la variante cuperliana «o Letta bis o Renzi a palazzo Chigi subito».
LA CONCLUSIONE
La conclusione della direzione dem è che sembra avere fatto passi da gigante l’ipotesi del voto anticipato entro l’anno. Renzi ne ha parlato apertamente, ricorrendo addirittura al discorso programmatico di Letta all’atto dell’insediamento: «Io sto a quello schema, Enrico aveva detto che ci si dava 18 mesi per le riforme e poi al voto, ne sono passati 10 di mesi, ne mancano 8», il che, facendo un calcolo non troppo difficile, porta alla conclusione del voto a ottobre. Una prospettiva che però significa andare alle urne con la nuova legge elettorale sì, ma senza le altre riforme. Per il Senato bisognerebbe attendere l’altra legislatura.