ROMA Per il Renzi uno è tutto pronto. Il primo governo a guida Matteo Renzi viene dato pronto ai vagiti già per il fine settimana. Manca il solito piccolo particolare: il passo indietro di Enrico Letta. Spianata la strada al Colle, vinte le ultime resistenze di quei renziani che al grido di «Matteo non lo fare» avrebbero voluto il passaggio di legittimazione elettorale, per il varo del nuovo governo si attende il sì del premier in carica, consumatosi di fatto da solo più che disarcionato. Letta pensava, e forse pensa ancora, di buttare la palla dentro il campo del Pd chiamando alla lotta di resistenza le truppe residue dei bersanian-dalemiani che avrebbero voluto candidarlo alle primarie in funzione anti-Renzi. Ma l’appello non solo non è partito, non è neanche stato ricevuto. Ed è stato anticipato da quel pie’ veloce del segretario, che già di mattina presto ha riunito i deputati, ha concordato con il capogruppo Roberto Speranza, bersaniano ma ultralealista, gli interventi, e nel giro di un’ora scarsa ha conquistato alla causa i parlamentari dem. Ci è pure scappato l’applauso.
LE PRE-CONSULTAZIONI
Acclamazione. «Questo governo ha le pile scariche, più che ricaricarle, meglio sarebbe cambiarle», ha detto papale papale il sindaco. Per poi accendere speranze per tutti: «Queste pile al momento sono al 19 per cento, noi possiamo portarci quell’81 per cento che manca, la legislatura può durare tutta fino al 2018». Il motivo politico della staffetta? Oltre alle pile scariche del Letta uno, le riforme: Renzi ribalta la strategia sostenuta finora, secondo la quale fare la riforma elettorale è garanzia di durata del governo; no, adesso il tema è che solo un governo nuovo, guidato dal leader del maggior partito legittimato dalle primarie, è in grado di garantirne l’attuazione, «non a caso il treno delle riforme si è mosso non appena Matteo è diventato leader», spiega il renziano Matteo Richetti.
L’assemblea però non è bastata. Da palazzo Chigi, anzi, giungevano rulli di tamburo, annunci di venti di guerra. Braccio di ferro in pieno svolgimento. Ed è partita la seconda batteria: l’annuncio che domani la direzione del Pd ha pronto da votare un odg dove si chiede senza tanti giri di parole il cambio di passo, di guida del governo e di programma. Una sfiducia di partito. Un testo che tutti sperano di non dover alla fine votare, sperando che serva come arma deterrente. L’auspicio di tutti è che Renzi e Letta si parlino, si chiariscano e decidano insieme i passaggi, senza coltelli e spargimenti di sangue. Un po’ come fece Romano Prodi, che tre giorni dopo essere caduto, fu proprio lui a proporre davanti ai deputati ds Massimo D’Alema premier al suo posto. Renzi nel frattempo ha proseguito le sue pre-consultazioni. Dopo Scelta civica, Dellai, colloqui con Sel e con Ncd, al Nazareno è entrato in mattinata Bruno Tabacci. L’esponente centrista ha capito nettamente che il treno del Renzi uno è già partito con i suoi bei vagoni, i due sono entrati quasi nel dettaglio, tanto che a un certo punto sono arrivati a parlare del futuro di Letta, «agisci secondo la classica scuola dc, proponigli di fare il ministro degli Esteri», ha buttato lì Tabacci, «vedremo», si è limitato a rispondere Matteo.
Nel Palazzo già impazza il toto-ministri. E non potrebbe essere altrimenti, visto che se il Renzi uno vede la luce, avverrà entro fine settimana. Ma prima dei nomi, è l’operazione politica a tenere banco. Renzi intende partire dall’attuale maggioranza Pd+Sc montiana+Ncd. Ma non intende fermarsi qua, il Renzi uno non vuol essere la semplice sostituzione di un premier con un altro.
OPERAZIONE POLITICA
L’operazione politica comporta che, al termine del percorso, la maggioranza di governo possa essere la stessa che si presenta agli elettori per chiedere il voto di riconferma. Il che significa che l’Ncd di Angelino Alfano non dovrà né potrà essere della partita. Dunque? Si parte anche con Ncd, ma già dall’inizio si tenta di allargare a sinistra, a Sel di Nichi Vendola in particolare, con l’obiettivo di ottenerne una astensione benevola subito e un ingresso posticipato, oppure un ingresso subito in maggioranza (ma questo comporterebbe rischio scissione dei vendoliani). Non che il Renzi uno si metterà da subito a lavorare per costringere gli alfaniani all’addio; ma neanche farà carte false per tenerli dentro a prezzo di profilo di squadra di governo e di punti programmatici. «Sarà il governo di Renzi segretario del Pd prima ancora che il governo delle larghe intese», pronosticava un renziano di prima fascia. Una prima mossa per ingraziarsi Sel dovrebbe essere la promozione di un ministro gradito nella persona di Fabrizio Barca. Quanto al resto della squadra, sarà un governo segnato da «forte discontinuità». Tradotto, significa che salterà buona parte degli attuali ministri a partire da quello dell’Economia, dove si fa già il nome di Piercarlo Padoan; si parla poi di Andrea Guerra, Ad di Luxottica, allo Sviluppo; Cuperlo alla Cultura, mentre degli attuali ministri politici dovrebbero restare solo Franceschini, Alfano e Delrio. Ultimo capitolo, il partito. Qui è lo statuto a dettare l’agenda: il segretario che diventa premier rimane leader del partito, ma l’assemblea nazionale elegge un vice segretario con i compiti di reggenza. Si fa il nome di Lorenzo Guerini.
Nino Bertoloni Meli