L’esperienza nella tendopoli di Murata Gigotti, gli incontri e le riunioni sotto le scosse insistenti per capire quali decisioni prendere per non «impazzire» e non lasciare tanta gente senza servizi. La memoria del segretario provinciale della Cgil Umberto Trasatti torna indietro nel tempo, a cinque anni fa, ripercorrendo i momenti dell’epoca post-sisma come un film in bianco e nero. Fino a ricordare le manganellate a Roma durante la manifestazione del luglio del 2010, quella in cui migliaia di aquilani, sindaco in testa, andarono a rivendicare un equo trattamento rispetto alle altre popolazioni terremotate, ricevendone per tutta risposta botte da orbi. Dalla fine dell’era delle tendopoli all’avvio di quella del Progetto Case, il passaggio dalla fine del commissariamento alla nuova governance con la mediazione del ministro Fabrizio Barca. Le ore di cassa integrazione in crescita vertiginosa dal 2009 a oggi, l’arrivo del governo Monti e poi di quello Letta, con il «desaparecido» ministro per la Coesione territoriale Carlo Trigilia. Il 2014 doveva essere l’anno della ricostruzione urbana e sociale. È stato così? «La ricostruzione stenta a entrare nel vivo e anche lo sblocco dei fondi per le attività produttive, i famosi 100 milioni provenienti dal 5% dei fondi stanziati dal Cipe per la ricostruzione, ancora non è realtà. Con la crisi del 2009 avevamo avuto 7,2 milioni di ore di cassa integrazione, con un incremento dell’867% rispetto al 2008. Il 2013 si è chiuso con 10,5 milioni di cassa integrazione solo per la provincia dell’Aquila. Se ci sommiamo i lavoratori in disoccupazione (ci sono in totale 15mila persone tra coloro che stanno in cig, in mobilità o in disoccupazione non agricola), emerge che rispetto al 2012 la crescita della cig è di quasi il 50%. Tradotto: rispetto al 2008 le ore di cassa integrazione sono aumentate del 1300%». Uno scenario devastante per una città da ricostruire e per l’intero cratere sismico. «La situazione è molto drammatica. Per ripartire dobbiamo velocizzare l’utilizzo di questi fondi facendo andare avanti il processo di ricostruzione con la certezza delle risorse. O il governo capisce che la tragedia può essere strumento per sperimentare un nuovo modello di sviluppo velocizzando la burocrazia statale oppure si resterà nel pantano». Cosa ricorda dei primi momenti dopo il sisma? «Ero a casa mia a Coppito, dopo la prima scossa la mia unica preoccupazione è stata chiamare mia figlia al cellulare per farla tornare a casa. Era andata a studiare a casa di un’amica. Percorsi nella notte un tratto del Corso, non dimenticherò mai la polvere e la gente che vagava in cerca di salvezza con le coperte sulle spalle, gli studenti con gli zaini, e tanta gente che si radunava via via in spazi aperti, come la Fontana luminosa. Alle 8,30 sono andato insieme ad altri colleghi del sindacato a vedere in che condizioni si trovasse la sede della Cgil. Il segretario regionale Gianni Di Cesare ci raggiunse in bicicletta. Ci rendemmo subito conto che anche se eravamo terremotati pure noi, dovevamo in quel momento cercare la forza e il modo per garantire tutti i servizi ai cittadini. Erano crollate attività e diverse fabbriche avevano subìto danni. Ci chiedevamo cosa sarebbe successo ai lavoratori. Dovevamo concordare con il governo e le imprese che non si poteva licenziare. Ricordo dentro all’Auditorium della Scuola della Finanza una riunione drammatica, in cui tutti urlavano. La tensione era altissima». Cosa significa che la tendopoli di Coppito, aperta dalla Pro loco e da questa gestita poi insieme a voi, fu l’unica non “militarizzata”? «Quando cominciammo a girare le tendopoli per ricostruire la rete dei delegati locali, abbiamo capito che Murata Gigotti era l’unica tendopoli gestita secondo una democrazia reale. Una mattina andammo al campo di Roio e dissi: “siamo della Cgil, dobbiamo entrare”. La risposta fu: “qui non si può entrare, ditemi chi cercate”. Poi finì l’epoca delle tendopoli e cominciò quella del Progetto Case. Capimmo subito che l’idea delle new town era sbagliata, perché si sarebbero costruiti alloggi per niente provvisori, rallentando la ricostruzione vera». La fine del commissariamento fu vissuta come una conquista anche dalla Cgil? «Ci siamo battuti perché si concludesse e si restituisse potere agli enti locali. Trovammo in tal senso un interlocutore importante in Fabrizio Barca: capì che non era accettabile che l’emergenza durasse così tanto e si gettarono le basi per una nuova governance. Finì l’epoca della filiera, dei vari Fontana e Cicchetti, si cominciò a parlare del concorsone che ha permesso la nascita dei due Uffici speciali per la ricostruzione». Prevede che ora ripartiranno passerelle di ministri e sottosegretari con il nuovo governo targato Renzi? «Vedremo. Ammetto che non sono mai stato un estimatore di Letta e Monti. Certo, ora sarà necessario riprendere immediatamente il filo interrotto del discorso sull’Aquila con il nuovo governo e pretendere che la ricostruzione sia una priorità nazionale».