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Pescara, 25/11/2024
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25/02/2014
Il Messaggero
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Renzi, prima fiducia «Serve coraggio per scelte radicali se perdo, colpa mia». Matteo sferza l’aula: chiedetevi perché la gente non vi segue |
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Nella notte via libera del Senato con 169 sì e 139 no, 12 gli assenti «Spero di essere l’ultimo premier ad affrontare questo passaggio» ROMA A mezzanotte e quarantacinque il governo ottiene la fiducia dall’aula del Senato: su 309 votanti, 169 senatori hanno detto sì a Renzi e 139 hanno votato no. Dodici gli assenti. Oggi tocca alla Camera. Il presidente del Consiglio si è giocato il suo battesimo da protagonista. Se la discontinuità si giudica dalla grammatica parlamentare, da toni, pause, mimica facciale, allora Matteo Renzi ha già voltato pagina. Un'ora e dieci parlando a braccio, a tratti con la mano in tasca. Tra fischi dei grillini, interruzioni, brusii e battimani, quando garantisce l'impegno per riportare in Italia i due fucilieri di Marina Girone e Latorre. ALL’ATTACCO
E’ un Renzi che interpreta se stesso, come promesso. Disinvolto, informale, persino spavaldo: «Serve coraggio per fare scelte radicali, se perdo è colpa mia», dice. Rompe il protocollo, battibecca con i M5S, «aiutiamoli, non è facile stare in un partito dove il capo dice che non è democratico. Ma vi vogliamo bene lo stesso». Dà del tu al Palazzo, vuol essere «l’ultimo premier che chiede la fiducia al Senato». Lo sfida. Un discorso, il suo, che alla fine sarà criticato dai detrattori, giudicato demagogo e populista, poco programmatico, troppo leggero. Che mette al primo posto i suoi cavalli di battaglia, «rilancio della scuola, un piano straordinario di edilizia scolastica, sblocco t dei debiti della Pubblica amministrazione attraverso un diverso utilizzo della Cassa depositi e prestiti, riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale». Non pronuncia neanche una volta le parole «Sud» e «Nord». Solo nella replica accenna al Mezzogiorno, scontentando gli autonomisti di Gal, e cita il presidente Napolitano, «vergognatevi di averlo costretto al bis». Poi ringrazia Enrico Letta; ricorda che la politica «non è una parolaccia»; evoca l’Europeismo di Spinelli;conferma l’orizzonte del 2018 e chiude con l’elogio di Sandro Pertini. Quasi a voler marcare una distanza tra sé e il Palazzo, Renzi si chiama anagraficamente fuori. «Non ho l’età per sedere nel Senato della Repubblica», dice, parafrasando il refrain della canzone che vinse a Sanremo. L’APPLAUSO
Per rompere il ghiaccio e strappare il primo applauso impiega ben 9 minuti: «Aiuteremo le pmi, ci saranno sussidi di disoccupazione e semplificazioni fiscale». Non ha un discorso scritto, Renzi, solo qualche appunto (tanto che per consegnarne una copia alla Camera occorrerà aspettare gli stenografi). Non cita tabelle, eleborazioni, ma invita enfaticamente «a fare dei sogni più grandi di quelli fatti fino ad oggi e accompagnarli con concretezza». Aggira lo scoglio dei diritti civili per non incagliarsi in una polemica immediata con il Nuovo centrodestra. «I diritti sono diventati oggetto di scontro - dice - al punto che ciascuno di noi ha portato la propria bandierina in tutte le campagne elettorali, a destra come a sinistra, poi non se n’è fatto niente. Il riferimento è alle unioni civili e allo Ius soli. Noi immaginiamo con questo governo di trovare dei punti di sintesi reali». Renzi sa che alla fine i malpancisti del suo partito non gli faranno mancare. Solo Maurizio Rossi. Senatore di «Per l'Italia» gli nega il proprio appoggio, mentre i sei civatiani optano per il “si” dandosi colpetti di gomito con lettiani e bersaniani.
Matteo sferza l’aula: chiedetevi perché la gente non vi segue
Il politichese? Mai. Il ritmo sonnolento di un tipico discorso da Senato? Ma figuriamoci. Il tono un po’ mellifluo che tutti i premier hanno sempre usato in queste occasioni? Niente di tutto questo. Matteo Renzi rompe schemi e stilemi della retorica politica classica. Mette in scena una provocazione dadaista. Come disegnando i baffi alla Gioconda, si lancia nella diminutio del Senato da luogo venerando a malandata istituzione meritevole di essere sbaraccata e, soprattutto, scavalca i presenti con le sue parole. Non li guarda proprio (a parte la moglie Agnese, in tribuna con l’amico Marco Carrai, quando Renzi parla a lungo della rivalutazione della scuola e degli insegnanti e lei è una professoressa precaria di lettere) e li fustiga i parlamentari in aula, mettendo una distanza critica e netta tra lui e loro. Loro «chiusi in un cinema» da cui non si vede il Paese reale. Loro calati in una realtà virtuale da «Truman Show». Loro in preda dell’«autoreferenzialità dei discorsi del Palazzo». Loro «chiusi qui dentro a fare discorsi» mentre lui si rivolge a chi sta fuori, alla società che parla «il linguaggio della verità e della semplicità». STILE
La comunicazione del premier vorrebbe essere quella che Fenice, l’antico istitutore di Achille, riteneva ideale per ogni governante: «Saper dire parole, portare a termine fatti». Sui fatti, vedremo. Le parole, eccole: «Le parole di qui dentro non sono le parole che si usano nella realtà vera», scandisce Matteo che dichiara come emblema della propria diversità politico-culturale la scelta del linguaggio da «mercato rionale». E’ dentro ma è anche fuori: il Matteo anfibio è quello che comunica come comunica la gente per riattivare anzitutto sul piano espressivo un «canale di fiducia tra il Paese e la politica». Quella politica che, avverte, «non è una parolaccia». Naturalmente, Berlusconi e i berluscones apprezzano massimamente questo ribaltamento dell’oratoria tradizionale e ormai incapace di sfondare il muro dell’immaginario e dei bisogni collettivi delle persone. I grillini invece vanno su tutte le furie, perchè è una sorta di Svuotagrillo questo discorso irriducibile ai canoni di sempre. Cita Cicerone o Bobbio il premier? Macchè. Parte accennando a «Non ho l’età», di Gigliola Cinquetti, per dire che lui è un ragazzo, e loro dei vegliardi pure un po’ miracolati e fuori dall’Italia che lavora e che soffre. Racconta storie di vita vissuta e di violenze patite. Il ragazzo di 17 anni ucciso da un automobilista ubriaco e l’assassino ha ricevuto una pena lieve come se avesse rubato una mela al supermercato (e così il premier sintetizza la questione giustizia, senza infilarsi in tecnicismi e nelle solite beghe ideologiche). «La ragazza della mia età» che Matteo dice di aver chiamato per farle forza, e si tratta di Lucia Annibali, sfregiata con l’acido dal suo ex ragazzo. «La mano del disoccupato che ho stretto e che trasudava disperazione». «Il mio amico che ha perduto il lavoro». Il racconto neorealista di Matteo - «Guardate in faccia chi sta in cassa integrazione» - contro l’algida separatezza del Palazzo rispetto alle persone. SIMBOLO
Parlare a braccio è il simbolo di quella semplicità anti-politicante che lui tiene a rimarcare, è il segnale che il format da bar è l’unico che parla la lingua della verità, è l’emblema dell’assenza di ipocrisie e di sofisticazioni tipica di certo barocchismo e machiavellismo politico d’antan. E la mano sinistra nella tasca, mentre pronuncia la sua raffica di parole? Serve a sottolineare che lui si trova a suo agio, che il luogo del potere va smitizzato, che la compostezza spesso è sinonimo di lentezza nell’agire più che nel parlare. Nella replica, il premier accusa: «Mi viene detto: come si permette di usare un tono diverso da quelli soliti che si usano qui e anche contenuti diversi? Io rispondo: voi rappresentate lo scollamento tra l’opinione pubblica, e il modo di parlare dell’opinione pubblica, e la realtà delle cose». E ancora: «Quando si parla di fronte al Senato si sta parlando con i rappresentanti dei cittadini e va usata la lingua franca e trasparente che usano i cittadini. Non potete chiedere un doppio registrato tra ciò che si dice qui dentro e ciò che si dice fuori. Il governo non avrà mai questo doppio registro». Il registro di Matteo è quello del sindaco d’Italia. «Io, da primo cittadino, mi sono occupato delle cose normali della vita della gente normale e così continuerò a fare da capo del governo». Ed è un continuo battere e ribattere sull’Italia come gigantesco «mercato rionale». Il pop contro il paludato, ecco. Il giro nelle scuole disastrate del Nord e del Sud, i consigli dei ministri nelle varie città italiane, la retorica contro i burocrati lavativi, sonnacchiosi o addirittura sabotatori: chiamala se vuoi demagogia, ma questo è il modo renziano per cambiare verso. E la scelta delle parole giuste, non odorose di stantio e non saporose di impenetrabile supponenza, vale quasi quanto la forza di un programma.
Legnini, è quasi fatta. Renzi lo vuole con sè Il deputato teatino resta sottosegretario o forse qualcosa in più
PESCARA Poche ore separano Giovanni Legnini dal ritorno al Governo. Ne è appena uscito da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria dell’esecutivo guidato da Enrico Letta, sta per rientrare nella nuova squadra che Matteo Renzi sta allestendo. L’apprezzamento che il deputato di Roccamontepiano riscuote in tutto il Pd, indipendentemente dalla corrente d’appartenenza, è stato decisivo nello spianare la strada alla conferma: la concorrenza è stata, ed è ancora in queste ultime ore, particolarmente forte ma il tesoretto di consensi conquistati da Legnini nella sua esperienza governativa e, precedentemente, in quella parlamentare lo hanno messo al riparo dasorprese. Ovviamente, fino a questo momento: in politica i colpi di scena sono all’ordine del giorno, e se qualcuno ti dice «stai sereno», esattamente come twittato da Renzi a Letta giusto prima del ribaltone a Palazzo Chigi beh, tanto sereno è meglio che tu non stia. In realtà per Legnini si tratta ormai soltanto di capire quale sarà l’incarico che gli verrà affidato: se resterà nelle sue mani la delega all’Editoria che bene ha tenuto in questi mesi o se per lui si preferirà un dicastero economico o quello cui sono affidati i rapporti dell’esecutivo con il Parlamento. C’è anche la possibilità, si sussurra, che possa ottenere qualcosa di più di un posto da sottosegretario, vale a dire un incarico da vice ministro, il che teoricamente rappresenterebbe un passo in avanti nella sua carriera governativa: diciamo teoricamente perchè va sempre valutato il peso del dicastero cui si viene abbinati. In altre parole, non è detto che una poltrona da vice ministro in un ministero di secondo piano valga più del posto da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che Legnini ha ottenuto nella gestione Letta. In attesa di conoscere con quali deleghe il parlamentare teatino entrerà a far parte dell’esecutivo Renzi, resta da dire di Stefania Pezzopane: la senatrice aquilana era stata indicata come una delle probabili novità nella squadra renziana, e tuttora si parla di un sottosegretariato per lei come di una possibilità non del tutto remota. Va rilevato come il Pd abruzzese sia da giorni in pressing su Renzi e il suo team perchè accolga la richiesta di due rappresentanti della nostra regione al Governo, specie in rapporto alla situazione dell’Aquila che richiede particolari attenzioni, e nessuno più della Pezzopane potrebbe garantirle, come tutti del resto riconoscono. Staremo a vedere, ancora poche ore e poi la squadra di Renzi sarà definita in tutti i suoi componenti.
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