ROMA Una giornata sull’orlo di una crisi di nervi. Incamerata nottetempo l’irritazione per lo stop al decreto Salva Roma Ignazio Marino ieri ha rischiato lo scontro istituzionale con Matteo Renzi. Alzando i toni fino a far perdere la pazienza al neo premier, che da parte sua non gliele ha certo mandate a dire. E al Pd, che durante la riunione della direzione nazionale ha accolto con un’ovazione una battuta ironica rivolta da Renzi all’inquilino del Campidoglio. Alla faccia del «partito dei sindaci» e del filo diretto che Marino credeva di poter avere con Palazzo Chigi. D’altronde le prime ore della giornata di ieri sono state un crescendo di attacchi frontali del primo cittadino di Roma contro governo e classe politica: «Io da domenica blocco la città - è stato l’antipasto - Quindi le persone dovranno attrezzarsi, fortunati i politici che hanno le auto blu, loro potranno continuare a girare, i romani no». Un messaggio letto come assist all’antipolitica, in perfetto stile grillino, proprio mentre i partiti di governo tentano di salvare la Capitale dal default.
L’ALLARME
I toni di Marino, con il passare delle ore, diventano sempre più allarmistici. «Per marzo non ci saranno i soldi per i 25 mila dipendenti del Comune, per il gasolio dei bus, per tenere aperti gli asili nido o per raccogliere i rifiuti». E, tanto per ampliare il raggio d’azione, «neanche per organizzare la santificazione dei due Papi, un evento di portata planetaria». Il sindaco è un fiume in piena: «Sono veramente arrabbiato, anche i romani sono arrabbiati e hanno ragione, dovrebbero inseguire la politica con i forconi». Altro passaggio, questo, poco gradito da tutto il Pd, a suggellare una scollatura che nei fatti si sta ampliando da mesi. Formalmente, Marino attacca l’opposizione più dura contro il Salva Roma: «Il parlamento non può essere un centro studio o un centro divertimento per gli onorevoli della Lega o del M5S», dice. Ma non risparmia un sarcasmo che sembra avere obiettivi ben più ampi: «Questo decreto è rimasto 42 giorni in Senato, io nello stesso tempo mi sarei laureato in fisica». Poi si scaglia contro il nome «bugiardo» dato al decreto Salva Roma e attacca ancora i leghisti: «In altri Paesi movimenti sorti da persone che bruciano la bandiera di solito li mettono in prigione e buttano le chiavi». Lo spettro delle dimissioni passa in secondo piano: «Si annunciano quando si è pronti a dimettersi - dice Marino - In questo momento non risolverebbero». Per far abbassare i toni, più che la presa di distanze di gran parte del Pd, servono le telefonate infuocate con Palazzo Chigi, in particolare con un Renzi furioso per le uscite del sindaco di Roma. E alla fine, Marino fa un respiro: «Io ho fiducia perché sia Delrio che Renzi sono stati sindaci e conoscono cosa significa gestire un bilancio ed avere a che fare con le esigenze dei cittadini».
DIPENDENTI ASSENTEISTI
Intanto le Iene sono tornate a mostrare in tv l’assenteismo negli uffici comunali di Roma, come era già accaduto alcune settimane fa e varie volte negli ultimi anni da parte del programma di Italia Uno. E Marino annuncia l’installazione di «tornelli in tutti i luoghi dove ci sono i dipendenti del Comune».
Il bilancio della disfatta ora si taglia o si tassa
Dal consuntivo 2013 del Campidoglio emerge che il deficit è ormai strutturale. Il Salva Roma sarà solo una toppa
necessario mettere mano al portafoglio
ROMA Il sindaco Ignazio Marino vuole a tutti i costi i 485 milioni di euro del decreto Salva-Roma. Sostiene che sono «soldi dei romani». Soldi, dice il sindaco, «che devono essere assolutamente restituiti»: il governo italiano, è la tesi, «deve ridare a Roma ciò che è di Roma». C'è da capirlo. Senza quel decisivo sostegno finanziario la Capitale rischia il dissesto, il fallimento. E il sindaco rischia il commissariamento.
I 485 milioni che Marino reclama sono fermi nelle casse della gestione commissariale, una sorta di «bad company» nella quale nel 2008 per salvare Roma da un crac imminente, il governo Berlusconi trasferì, secondo dati inediti da poco consegnati alla Commissione bilancio del Senato dal commissario Massimo Varazzani (a lui è affidata la gestione della bad company), ben 20 miliardi di debiti accumulati negli anni dal Campidoglio: di quei 20 miliardi, al 15 gennaio di quest'anno ne erano stati restituiti solo poco più di 5, quindi ne restano da pareggiare altri 14,9. Sono debiti dei romani, che i romani stanno pagando con l'addizionale Irpef più alta d'Italia, lo 0,9%. Ma il punto è che non sono solo loro a dare una mano alla Capitale, bensì tutti i cittadini italiani.
IL SOSTEGNO DEGLI ITALIANI
Ogni anno, infatti, il ministero dell'Economia trasferisce circa 300 milioni di euro a Varazzani per permettergli di scalare l'immensa montagna. I 485 milioni che Marino rivuole dalla gestione commissariale, sono denari che il Comune aveva trasferito a Varazzani nel 2009, in attesa che entrasse in vigore dal 2010 il contributo pluriennale dello Stato. Il punto però, come spiega la relazione al bilancio preventivo del 2013 istruita dallo stesso Campidoglio, è che quei 485 milioni erano finiti nelle casse di Roma direttamente da quelle del Tesoro. Insomma, non si tratterebbe di restituzione, come pretende di far credere Marino, ma di un sostegno di tutti gli italiani alla soluzione dei problemi di Roma.
SECONDO SALVAGENTE
Se davvero oggi il premier Matteo Renzi varerà il nuovo decreto Salva-Roma, sarà il secondo salvagente che viene accordato a Roma in soli cinque anni. Il problema è che, nonostante questo, i conti della Capitale sono tutt'altro che al sicuro. Anzi, basta leggere gli ultimi report dell'agenzia di rating Fitch, che dopo aver messo sotto osservazione il giudizio sul Roma con «aspettative negative», tra poco più di un mese, venerdì 11 aprile, potrebbe decidere di abbassare ulteriormente il merito di credito del Campidoglio, in pratica già a un passo da quello che i mercati finanziari definiscono «spazzatura».
SQUILIBRIO STRUTTURALE
«Roma spremuta tra austerity e pressione dei costi» è il titolo di uno degli ultimi studi sulla Capitale realizzati dall'agenzia. Il problema sollevato da Fitch si chiama «squilibrio strutturale». In altre parole, quanto il Campidoglio incassa tra imposte, tasse, tariffe, multe e altre voci tipiche (4,7 miliardi nel 2014 secondo le stime di Fitch) non basta a coprire le spese (4,82 miliardi, sempre secondo le stime dell'agenzia). Va detto che di questo squilibrio il bilancio di previsione del 2013, approvato con l'aiuto decisivo del Salva-Roma, non fa mistero.
Di là di ciò, è un fatto che nei conti dello scorso anno si è aperto un buco di 815 milioni. Colpa di minori trasferimenti da parte dello Stato, ma anche del fatto che non si è riusciti a imbrigliare la spesa. Inoltre, sono emersi debiti «fuori bilancio» per 56 milioni, si è dovuta coprire la perdita di Farmacap (le farmacie comunali) per un totale di 15 milioni, si sono dovuti pagare maggiori costi per le bollette per 18 milioni, e via dicendo fino a scavare appunto un buco di 815 milioni.
Ora, se la gestione ordinaria fosse in equilibrio ciò non sarebbe un dramma, ma il problema, come detto, è che il deficit è ormai strutturale. Sicchè il timore degli analisti è che, nonostante l'aiuto di Stato, nei conti rimarrà sempre un buco annuale di almeno un centinaio di milioni nella parte corrente del bilancio.
IL TIMORE DEI FORNITORI
Con un effetto alquanto perverso: il Campidoglio, costretto a pagare con puntualità gli stipendi dei dipendenti, i servizi che non può interrompere, gli interessi a banche e Cassa depositi e prestiti su mutui che in caso contrario ne provocherebbero il default, per evitare crisi di liquidità finirà per non saldare i fornitori di beni e servizi accumulando così debiti commerciali fuori bilancio. Esattamente quello che probabilmente sta già accadendo. Si comprende perciò l'allarme dell'Acer, l'associazione dei costruttori, per l'affossamento del Salva-Roma. E quello di molti altri fornitori che guardano con ansia alle decisioni del governo. Il timore è che le imprese facciano da prestatori di ultima istanza al Campidoglio, con il rischio che a secco alla fine ci restino loro.
LA NAVE IMBARCA ACQUA
Come se ne esce? In una nave che imbarca acqua, secondo gli analisti è inutile cercare di svuotare la stiva con un secchio. Va chiusa la falla. In che modo? Le strade che si aprono sono sostanzialmente due: la prima più semplice, la seconda più complessa ma sicuramente più corretta in ordine a svariati criteri.
Quella semplice era prevista nel primo decreto Salva-Roma con l'aumento all'1,3% dell'addizionale comunale Irpef. Il che vuole dire più tasse per i romani. Ed è la soluzione che sembra prediligere il Comune quando nel bilancio preventivo parla di «valutazioni anche di carattere politico in merito al livello di imposizione possibile».
La via alternativa è quella di un serio piano di rientro. La senatrice Linda Lanzillotta, per esempio, aveva proposto di chiudere le partecipate minori. Una società come Risorse per Roma incassa dal Comune circa 50 milioni l'anno per occuparsi di «pianificazione urbanistica», una funzione che potrebbe benissimo essere svolta direttamente dal Comune. Inoltre, a dimostrazione che si tratta di un’attività impropria per un comune, il Campidoglio è l'unico «proprietario» di farmacie che riesce a perdere su un business che in Italia ovunque genera ricchezza.
UN NUMERO ESUBERANTE
Anche in questo caso, la via della cessione non disturberebbe i sonni di nessuno e consentirebbe di fare cassa preziosa da destinare ai servizi essenziali. Per non parlare dell’esercito di dipendenti diretti (25 mila) e di quelli indiretti (37 mila) che fanno capo al Comune, un numero che anche recenti rivelazioni del Messaggero - si vedano i casi di Ama e Atac - hanno dimostrato essere perlomeno esuberante.
Certo, tassare e chiedere aiuti allo Stato è assai più semplice.