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Data: 28/02/2014
Testata giornalistica: Il Centro
M5S, insulti e addii Lasciano 6 senatori. «Usciranno in quattordici» L’ipotesi del nuovo gruppo

ROMA Espulsioni boomerang. La guerra stellare scatenata da Grillo e Casaleggio per ora ha un bilancio pesante con sei dimissioni al Senato, due deputati lasciano il gruppo della Camera e una raffica d’insulti e parole che in politica solo il vocabolario dei 5 Stelle contiene. «Operazione riuscita, il paziente è in sala di rianimazione, speriamo che il decorso sia breve e soprattutto che non ci siano metastasi», scrive la senatrice Nugnes. Quando si definiscono i dissidenti come un cancro da estirpare, si capisce che tira un'aria bruttissima, e chi evoca le purghe staliniane, forse non esagera. Il risultato della rete è stato pure messo subito in discussione dall’account Twitter della Casaleggio e Associati, “bucato” dagli hacker. «Possiamo fare tutto - scrivono i ladri informatici - siete vulnerabili». La democrazia della rete ridicolizzata mentre le lotte intestine si scatenano. Sei le lettere di dimissioni sulla scrivania del presidente Grasso: Maria Mussini, Maurizio Romani, Monica Casaletto, Alessandra Bencini, Laura Bignami, Luis Orellana. Gli altri tre espulsi Lorenzo Battista, Fabrizio Bocchino e Francesco Campanella restano e sono già passati al gruppo misto. Sarà l’assemblea di Palazzo Madama con un voto decidere se accettare le dimissioni e per prassi, specie se hanno origine da motivazioni politiche, vengono respinte. Il caos del Senato ieri si è esteso anche alla Camera con l’uscita dal gruppo dei deputati Alessio Tacconi e Ivan Catalano: «Chi tocca Grillo muore, lasciamo il gruppo». Immediata la reazione dei leader ortodossi capitanati dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Per il gruppo di deputati duri e puri si tratta di «parassiti, di zavorra che è meglio che vada via, sono quelli che doveva restituire i soldi e non l’hanno mai fatto». «Siamo in guerra, o dentro o fuori» scrive l’ex capogruppo Roberta Lombardi, invitando tutti quelli che hanno ancora dubbi a seguire l’esempio di chi lascia il Movimento. Metafore abnormi usate anche dal responsabile comunicazione del Senato Claudio Messora: «Quando s’inizia una guerra bisogna finirla, ha bisogno di un popolo che la comandi e di un esercito che la conduca con freddezza e determinazione, di regole che impediscano a ribelli e disertori di condizionarne l’esito». La colpa degli espulsi è di logorare il morale delle truppe. «Ormai contano solo Grillo e Casaleggio» dice il senatore Francesco Campanella «ci hanno cacciato solo perché aveva criticato il modo con cui Grillo aveva affrontato Renzi. Io sono disponibile a essere il portavoce degli elettori ma non di un padrone». Nonostante qualche dubbio cominci a serpeggiare anche tra gli “allineati” sulle modalità adottate in questi giorni, dagli staff dei due capi confermano la linea dura: «Si va dritti su questa strada, nessun ripensamento». Ma dalla decisione di espellere si smarca il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, uno degli eroi dell’exploit elettorale del Movimento 5 Stelle. «Con estrema buona fede dei nostri parlamentari dateci elementi sulle colpe dei quattro senatori espulsi, convincetemi su quest’azione così forte e che non concede appello, perché io non l’ho capita». Per il sindaco si tratta di una giornata «che ha lasciato l’amaro in bocca, sapendo che i problemi degli italiani sono altri. Non bisogna perdere tempo in dissidi interni che indeboliscono e deludono le persone che ci sono vicine». E il colpo mediatico per i 5 Stelle con la campagna elettorale alle porte non sarà assorbibile con facilità. Per ora i ribelli sono cauti sulla possibilità di far nascere un gruppo autonomo al Senato, tanto meno l’ipotesi di dare vita a una formazione con i senatori critici del Pd e vicini a Pippo Civati. L’idea di molti come Corradino Mineo è quella di lavorare per un diverso equilibrio di maggioranza da offrire a Renzi. Per ora i numeri sono scarsi e gli stessi dimissionari dicono con chiarezza che mai passerebbero con un’altra forza, i 5 Stelle restano a casa loro nonostante l’esilio. E il caso delle senatrici Mussini e Bencini «Lasciamo il seggio del Senato ma fino al voto resteremo nel Movimento».

«Usciranno in quattordici» L’ipotesi del nuovo gruppo

Secondo Civati i dissidenti grillini sufficienti per una formazione autonoma Il Pd Mineo apre alla possibilità di un raggruppamento che includa anche Sel

ROMA Corradino Mineo è il più esplicito. Se ci fossero le condizioni per formare un nuovo gruppo al Senato con Sel, i dissidenti grillini e la sinistra del Pd, l’area più o meno civatiana, lui ci starebbe. «Possiamo fare un cammino comune, io discuto con loro e sono intenzionato ad aiutarli: non ho nessun problema a trovare una casa nuova», ammette l’ex direttore di Rainews 24, confermando di trovarsi più a suo agio con Campanella che con Giovanardi». Ma l’operazione è tutta in salita. Pippo Civati, intervistato a “Un giorno da Pecora”, sbaglia clamorosamente sul numero di senatori necessari per fare gruppo autonomo al Senato «ne bastano cinque (invece sono 10, ndr), quindi non c’è bisogno dei miei amici», dice, chiudendo all’ipotesi di «prestare» qualcuno di suoi ai dissidenti. Poi esagera su quanti, alla fine delle epurazioni, saranno i senatori del M5S a dover lasciare il Movimento. «Sono una decina quelli in difficoltà, compresi quelli che sono già usciti potrebbero essere in 14». Un numero sufficiente a garantire un eventuale governo senza i voti del Nuovo centrodestra? Assolutamente no, visto che gli alfaniani a Palazzo Madama sono ben 31 e dunque senza il sostegno di Sel in questo Parlamento non è immaginabile una diversa maggioranza. Del resto se anche ci fosse per il Pd la possibilità di giocare sui due forni di andreottiana memoria, Renzi non accetterebbe di cambiare maggioranza. Almeno secondo Civati. Se ci fossero i numeri per sostituire i grillini ad Alfano il premier lo farebbe? «Lui ha deciso di fare il contrario, a lui piacciano tutte e due le destre, sia quella di Berlusconi che quella di Alfano», assicura Civati confermando che in ogni caso per quanto lo riguarda non ha intenzione di lasciare il Pd ma «rimettere insieme la coalizione di centrosinistra che è un po’ come rimettere insieme i Rolling Stones». Accusato da Roberto Fico, fondamentalista presidente grillino della Vigilanza, di aver lavorato alla scissione dei dissidenti costruendo rapporti personali a base di cene comuni, Civati nega. «Smentisco categoricamente questa cretinata delle cene con i grillini, è un argomento già usato sei mesi fa, era falso allora ed è falso oggi: non mi sembra un grande argomento cavarsela con le cene per nascondere il disagio di un terzo dei senatori grillini», taglia corto. Le condizioni per un cambio di maggioranza in corsa dunque non ci sono. In casa Pd, soprattutto nella minoranza che ha votato il governo con forti maldipancia ma anche tra i renziani, per ora si considera positivamente la possibilità di potersi giocare sul tavolo della maggioranza sulla graduale, ma inesorabile crescita del dissenso in casa grillina. Molto dipenderà anche dall’esito del voto europeo che sarà un banco di prova sia per la tenuta elettorale di Grillo che per Matteo Renzi. La teoria dei due forni potrebbe essere molto utile soprattutto se il Nuovo centrodestra di Alfano dovesse mettersi di traverso per alcune riforme che il premier ritiene non più rinviabili, come lo jus soli e il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto etero e omosessuali. Il voto favorevole degli ex Cinquestelle potrebbe essere il primo esperimento di un’altra maggioranza possibile.

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