Nella lettera al «Corriere della Sera» che qui pubblichiamo, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi interviene nel dibattito sulla riduzione delle tasse che si è aperto nei giorni scorsi, dopo l’annuncio del premier Matteo Renzi di voler intervenire con un taglio da 10 miliardi. Misure che Renzi sta mettendo a punto in vista del Consiglio dei ministri di domani: domenica sera il premier ha annunciato di voler intervenire a favore delle famiglie con «qualche decina di euro in più in busta paga» a chi ne guadagna fino a 1.500 al mese. Secondo il leader degli industriali, la misura ideale sarebbe invece la riduzione del cuneo fiscale pagato dalle aziende. Per un miglioramento della competitività delle imprese e per aiutare l’occupazione.
Caro direttore, molti vorrebbero farci credere che siamo fuori dalla crisi. Personalmente sono abituato a dire le cose che penso e a farlo in modo diretto. È vero, i numeri sembrano migliori di qualche trimestre fa, ma di crescita vera e propria non possiamo ancora parlare. La ripresa, se viaggerà a questi ritmi, sarà purtroppo lentissima. Per crescere sul serio e stabilmente nel tempo dobbiamo fare poche cose ed efficaci.
Cresceremo se il costo delle nostre imprese sarà confrontabile con quello dei nostri diretti concorrenti. Non entro sulle tante voci che paghiamo più degli altri. Mi concentro su una sola questione del dibattito di questi giorni. Da tempo diciamo che occorre intervenire in maniera seria sul cuneo fiscale, perché quello è il fattore che più ci penalizza rispetto alle economie avanzate. Più di 35 punti di svantaggio competitivo rispetto alla Germania sono un abisso che non possiamo pensare di colmare facendo leva sempre sulla nostra creatività e fantasia.
Un miglioramento di competitività di costo si tradurrebbe immediatamente in effetti positivi sia sull’occupazione, sia sulla competitività d’impresa. È strutturale, agisce in profondità. Non si tratta di una misura fatta per gli imprenditori: non siamo iscritti al club Irap o Irpef. Siamo da tempo convinti che la questione chiave è la riduzione del cuneo pagato dalle aziende. Ridurlo vorrebbe dire venire incontro a chi produce e genera valore in Italia, allo sforzo di chi crede nel nostro Paese. La riduzione del costo del lavoro agirebbe in favore degli occupati e di chi un lavoro purtroppo oggi non ce l’ha, ma lo avrebbe se il suo costo gravasse meno sul bilancio delle imprese.
Sarebbe interessante chiedere agli italiani se vogliono un lavoro o qualche decina di euro in più in tasca. Sarebbe interessante stimare quante delle crisi industriali che stiamo affrontando sono crisi generate da costi eccessivi.
Cresceremo se le regole del fare impresa saranno poche, rigorose e comprensibili. Lo dico da tempo: attenti ad affidarsi solo agli slogan, alle scorciatoie facili da enunciare, quanto difficili, lunghe e costose da praticare. Sul lavoro non cediamo alla tentazione di introdurre nuove forme contrattuali aggiuntive. Rendiamo più chiare, semplici e flessibili quelle esistenti, all’ingresso come all’uscita dell’occupazione. Togliamo i pesi e le complicazioni inutili della riforma Fornero e avremo più lavoro.
Se avessimo destinato alla riduzione dei costi impropri del lavoro e dei tanti colli di bottiglia che bloccano le assunzioni, l’energia e il tempo che abbiamo perso in una disputa ideologica anacronistica, pregiudiziale e sterile, la crescita la terremmo già stretta tra le mani. Forse molti giovani sarebbero occupati.
Cresceremo se, a fianco della sacrosanta spending review , faremo una regulation review che rimuova le troppe norme che generano costi, tempi, ruoli, poteri inutili. Che alimentano caste e corruzione. L’imprenditore non può passare la maggior parte del suo tempo sul codice civile o con gli avvocati. Il suo mestiere è un altro. Tra le cose fatte da Confindustria c’è una precisa ricognizione di ciò che va eliminato, razionalizzato, ridotto. Un manuale per la semplificazione a disposizione di tutti.
Cresceremo se il basilare principio che regola il rapporto tra qualsiasi cliente e fornitore verrà rispettato, in primo luogo dallo Stato: pagare i propri debiti e pagarli in tempi corretti, come si fa in tutto il resto del mondo.
La parola d’ordine è ridare competitività al Paese e alle sue imprese. Mille cose si possono fare e tante sono le ricette proposte. Tutte hanno una loro legittimità. Ma, mi spiace dirlo, non è tempo per perdersi in esperimenti. Sono lussi che non ci possiamo permettere. Abbiamo perso decine di migliaia di imprese, milioni di posti di lavoro, un quarto della produzione industriale. Numeri da brivido. Occorrono poche scelte chiare, decise e dritte all’obiettivo. Il lavoro deve costare come negli altri Paesi, quindi molto meno. Le regole devono essere semplici come quelle della migliore Europa. Bisogna pagare ciò che si acquista. Non è un regalo o un incentivo. È dovuto. Il Paese si è retto in questi durissimi anni sulle spalle di chi è andato a cercarsi per il mondo nuovi mercati. Abbiamo bisogno di una scossa forte che ci dia fiducia per continuare. Alla politica il difficile compito di scegliere. Un cosa però deve essere chiara: senza impresa non c’è crescita, non c’è lavoro, non c’è Italia.