Le grandi aziende, le non scelte in campo normativo, la politica occupazionale. Nicola Biscotti è il numero uno dell’Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (e imprenditore del trasporto nella sua Puglia) e su Clickmobility dice la sua sul futuro del Tpl. La salvezza del settore? Un progressivo svincolarsi dalla finanza pubblica, che finchè coprirà l’80 per cento del finanziamento farà sì che in molte aziende non si faranno politiche commerciali. E non cadere nella "follia" dei bacini unici regionali
La crisi del Tpl c’è, ma basterebbe poco per superarla. «Poco e tantissimo», spiega Nicola Biscotti, presidente dell’Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (l’Anav): basterebbe svincolarsi progressivamente dalla finanza pubblica», e – forse ancora più difficile – «recuperare, forse scoprire una solida cultura del lavoro».
Foggiano di Apricena, 56 anni, più di una carica di quelle che contano nel suo settore – è direttore generale di Acapt, amministratore Unico di Saps e Eurobus, e vice presidente del CdA di Roma Marche Linee – Biscotti è imprenditore nel settore dei trasporti pubblici di persone "da generazioni": l’azienda di famiglia Autolinee Biscotti trasportava passeggeri già a inizio secolo, con le carrozze a cavalli, negli anni è diventata Acapt e poi Saps (per l’esercizio di autolinee interregionali e noleggio autobus), e attualmente il gruppo di aziende facenti capo alla famiglia Biscotti esercita trasporti locali ed internazionali con 70 autobus e 100 dipendenti. Una realtà medio-piccola, ma «efficiente» e in grande crescita. «E tante potenzialità».
Biscotti, stiamo vivendo il momento più difficile mai vissuto dal trasporto pubblico locale?
Il problema è che vari fattori di criticità si sono incancreniti a causa delle non scelte della politica. Se ne potrebbero fare elenchi infiniti, dal problema dei finanziamenti a singhiozzo all’intermodalità ferro-gomma praticamente inesistente. Criticità che si sono trascinate (e aggravate), oggi, in una situazione nella quale, dal 2010 in poi, sono iniziati i tagli alla finanza pubblica. Ma non solo.
Vada avanti.
Mi verrebbe da dire un’altra cosa. Un’altra causa della crisi del settore, in Italia, è la bassa produttività del settore stesso. Una causa-effetto. La voce maggiore, tra i costi produttivi complessivi, è rappresentato - nella misura del 60, 65 per cento - dal costo del personale. In Europa il personale nello stesso ambito di servizio lavora di più, fa più chilometri al giorno, produce di più. Forse se prendessimo esempio potremmo parlare di crisi meno devastante, crisi minore.
Altre strade per arrivare a parlare di “crisi minore”?
Come Anav abbiamo sostenuto negli ultimi anni la necessità di pervenire a costi standard del servizio. Ovvero, un’omogeneità di erogazione di corrispettivi a parità di servizio. Viceversa, dal 1981 in avanti, da quando nel nostro paese si è istituito il Fondo nazionale trasporti, la ripartizione del finanziamento pubblico alle imprese non è stato più fatto sulla base di criteri seri e standardizzati. Bensì sulla base del precorso storico. E quindi chi nell’81 spendeva di più ha avuto più soldi, e la divisione si è fatta senza entrare nel merito se quella spesa in più fosse virtuosa o una spesa fine a se stessa.
Ci fa degli esempi?
Non faccio distinzione tra pubblico e privato, sia chiaro. È una guerra che non mi appartiene, né come orientamento politico, né come Dna. Nelle Marche, ad esempio, imprese sia pubbliche si aprivate gestiscono il trasporto a 1,40 euro di corrispettivo, quando nel Lazio lo fanno a 3,50, pure 4 euro a chilometro. Questa distorsione negli ultimi 30 anni non è mai stata sanata, e i tagli iniziati nel 2010 sono stati lineari. È stato tolto denaro e finanza pubblica a tutti, indistintamente.
La colpa è della politica?
Della mancanza di coraggio a livello politico. Non sono state fatte delle scelte per un settore troppo importante come quello dei trasporti. Il Tpl costa 6,4 miliardi l’anno: una cifra non marginale, ma corrispondente al costo della sanità di una regione italiana media. Se il Tpl è un'ossatura del paese, e così è, perchè si muovono 15 milioni di persone al giorno, forse le scelte andavano fatte.
Perché, secondo lei, è successo questo?
Chiaro. Si è preferita la politica occupazionale. Le imprese pubbliche sono state utilizzate come serbatoio di posti di lavoro, e non come luoghi di produzione. Il trasporto in fondo è pur sempre un servizio materiale, pubblico in senso lato. Questo tra l’altro in un contesto nel quale si doveva puntare a togliere spazio alla motorizzazione privata, incentivando corsie preferenziali e autostazioni di scambio ferro gomma e l’intermodalità in generale. È successo questo secondo lei?
Come pensa si stia ridisegnando il settore? Si sta muovendo per trovare un nuovo assetto?
La ricerca dell’assetto in corso è solo strumentale a progetti ideologici. Il riassetto del quale si parla si basa sulla teoria per la quale bisogna arrivare ai bacini unici regionali o a soluzioni del genere per ottimizzare. È una follia, una bufala, una presa in giro. L’organizzazione del trasporto non dipende dalla grandezza dell’impresa. Parlare di riassetto del settore in questi termini a mio parere nasconde un tentativo di far fuori dal mercato le piccole e medie imprese del settore.
Quale pensa debba essere il mercato ideale? Quello dove operano pochi campioni nazionali o un mercato con operatori piccoli e locali?
Chi governa il Tpl dovrebbe prendere coraggio e chiedersi come finiscono la maggior parte delle risorse. In tanti sostengono che le piccole aziende siano la rovina del settore, e la necessità di avere un mercato di sole grandi aziende in modo da poterle far competere in Europa. Fossi una grande azienda del trasporto prima di competere in Europa mi preoccuperei del servizio locale che devo erogare al meglio, e poi farei due conti. Le famose mille piccole aziende del Tpl nazionale di cui si parla rappresentano solo il 5-10 per cento del mercato. Un po’ poco per poterle considerare il motivo del fallimento e dello sfascio del restante 90-95 per cento. Ad aver mantenuto la situazione fallimentare sono piuttosto le grandi realtà del Tpl.
Ovvero?
Non vorrei generalizzare, ma è nelle grandi imprese che si consentono turni di guida da quattro ore invece che da sei, dove si registrano 100 riposi l’anno, dove le centinaia di dipendenti parlano palesemente di politiche occupazionali. Una realtà produttiva non si può giudicare a tavolino sulla base della grandezza o della natura privata o pubblica. Un’azienda va giudicata da come e se rispetta il contratto di lavoro, se svolge al meglio il suo servizio, se ha una politica commerciale adeguata, se garantisce tutte quelle cose che i cittadini si aspettano da un gestore del trasporto passeggeri. Con l’idea per la quale sono le piccole aziende il problema del Tpl si vuole favorire la diffusione dei bacini regionali, ma è una follia. Ben vengano i processi di aggregazione, ma solo ottimizzando risorse e coniugando interessi. Il grande progetto di riforma di cui si parla sarebbe far fuori dal mercato con metodi illegittimi le piccole imprese. Ovvero tentando di ingrandire il bacino di traffico, portarlo a livello regionale, impedire la libera partecipazione delle imprese alle gare.
In tanti considerano la confusione e la mancanza di razionalizzazione normativa in materia il principale problema del settore.
Il nostro è il paese della complicazione delle cose semplici. Il decreto 422 del 1997 introduceva le gare, eliminava le concessioni, introduceva i piani di servizi, la separazione tra programmazione e gestione. Se fossero stati attuati tutti questi provvedimenti oggi avremmo una situazione più omogenea.
In quale “direzione normativa” si dovrebbe andare?
Penso a gare su tutto, a costi omogenei dei servizi, a scelte serie e condivise sul rapporto ferro-gomma. A evitare che ci siano treni da 10 viaggiatori al posto di autobus che con gli stessi 10 viaggiatori farebbero ben più soldi. E poi garantire la ripresa degli investimenti.
Altro problema di fondo del Tpl si lega all’incertezza sui finanziamenti. Quale pensa dovrebbe essere il primo canale di sostentamento per il Tpl, e verso quale futuro si sta andando?
Il Tpl dovrebbe sganciarsi progressivamente dalla finanza pubblica. Svincolarsi dal pubblico significa mettere le aziende sul mercato. Oggi alle aziende del settore dagli utenti arrivano il 25 per cento delle risorse, non di più, e tutto il resto dallo Stato. Se dai viaggiatori dovesse arrivare il 50, o anche il 40 per cento del finanziamento, sarebbe necessario fare politiche commerciali più decise. Se invece – come succede – la finanza pubblica copre l’80 per cento, è chiaro che in molte aziende di politica commerciale non se ne vedrà. Ma non solo.
Continui.
Il valore dell’evasione tariffaria sul Tpl su gomma è stimata in 400 milioni all’anno. Come e chi la potrebbe combattere? Se solo si volesse, il personale alla guida degli autobus. Che invece solitamente si gira dall’altra parte. In questo settore dobbiamo recuperare la cultura del lavoro. E ancora prima di avvitarci su pubblico, privato, gomma o ferro, far sì che le aziende contino meno sui finanziamenti statale e vadano a cercarsi i viaggiatori aumentando le corse, con il ricambio dei mezzi, con informazioni più puntuali, con le corsie preferenziali e in generale un servizio ben gestito.