Nominati rappresentanti di lista pur non conoscendo nulla del sistema di voto, un modo per «comprare» il consenso e verificarlo. E ancora telefonate e colloqui dai toni decisi perché al voto dei dipendenti e delle loro famiglie, corrispondesse un impiego adeguato della forza lavoro, che nel caso degli autisti è legato ai chilometri percorsi: se non mi voti non viaggi e non guadagni. Sono in sostanza questi alcuni dei punti cardine del ramo dell’inchiesta (quello politico) che ha travolto la famiglia Di Nino (a cui è andata tutta la «solidarietà e la vicinanza» del senatore Fabrizio Di Stefano) e in particolare l’attuale vice presidente della Provincia Antonella (non indagata), il cui successo elettorale alle elezioni del 2010 sarebbe stato «drogato» da una campagna elettorale condotta dal padre Piero utilizzando tutta l’autorità di un capo d’azienda che conta 130 dipendenti e che è molto influente nella vita economica del territorio. A sostenere il castello accusatorio del procuratore della Repubblica di Sulmona, Aura Scarsella, ci sarebbero intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di testimoni, tra cui i due da cui è partita la denuncia e che hanno riferito (almeno uno) agli inquirenti di essere stati costretti a mettere la croce sul nome della candidata di famiglia. Prove evidenti ci sarebbero poi anche per gli altri capi d’imputazione: truffa, estorsione, falso e favoreggiamento, per i quali, a vario titolo, sono stati raggiunti da avviso di garanzia oltre a Piero Di Nino, anche il fratello Stefano e altri 13 dipendenti, accusati di aver manomesso una ventina di cronotachigrafi sui camion per falsare gli orari dei viaggi. «Il comunicato stampa all’esito dell’avviso di garanzia - denuncia l’avvocato dei Di Nino, Vincenzo Margiotta - è una grave e volontaria distorsione del sistema processuale».