PESCARA D’Alfonso contro D’Alfonso. Il candidato del centrosinistra a presidente della Regione smentisce se stesso e afferma di non avere mai dichiarato di non essere intenzionato a dimettersi in caso di condanna in secondo grado nel processo Housework. Che siano state le polemiche suscitate, le proteste degli alleati o i malumori interni al Pd, Big Luciano innesta la retromarcia. Ma lo fa ricorrendo ad argomentazioni piuttosto difficili da sostenere. Non dice, infatti, che valuterà le dimissioni in caso di condanna in appello, ma si aggrappa alla trascrizione letterale del confronto con Giulio Borrelli, trasmesso in diretta streaming. «In nessun passaggio di quel confronto io ho usato l'espressione non mi dimetterò – dice D’Alfonso - Mi sono limitato a richiamare un pacifico diritto di ogni cittadino, quello di ottenere l'accertamento della verità, anche nei successivi gradi previsti dall'ordinamento». Il senso della conversazione, però, appare inequivocabile. «Mi faccia capire, perché il cittadino deve sapere – lo incalza Borrelli, dopo ripetuti tentativi di ottenere una risposta – Cosa succede nel caso in cui, tra un anno, il processo di appello non dovesse confermare la sentenza di assoluzione del primo grado?». D’Alfonso spiega: «Vado ad un ulteriore grado». E il portavoce di Abruzzo Civico ribatte: «Ah, quindi lei non pensa che si possa tornare a votare. Lei finché non c’è una sentenza definitiva della Cassazione si ritiene innocente». E il candidato del centrosinistra conferma: «Assolutamente sì, vado avanti nella ricerca della verità, convinto del fatto che l’appello non potrà che darmi ragione». Non tornare al voto, evidentemente, significa essere intenzionati a tirare dritti senza dimettersi, ma è il passaggio successivo a diradare qualsiasi dubbio interpretativo. «E lei pensa – torna alla carica Borelli - con gli alleati che già mostrano dei malumori, di poter resistere, in caso di condanna in appello, fino al giudizio della Cassazione ?». D’Alfonso annuisce: «Certamente sì, per la qualità delle assoluzioni che ho ricevuto». Ergo: continuerò tranquillamente a governare, alla guida della mia coalizione, perché sono certo delle mie regioni. Le affermazioni dell’ex sindaco di Pescara, d’altronde, fin dall’inizio erano apparse chiare a tutti. Compreso il leader di Abruzzo Civico, che martedì scorso ha messo alle strette il suo interlocutore. Poche ore dopo, il presidente regionale di Forza Italia, Nazario Pagano, ha sparso sale sulla ferita: «In caso di condanna in appello, Luciano D'Alfonso non dovrà dimettersi, ma sarà il presidente del Consiglio dei Ministri a sospenderlo per diciotto mesi dalla carica, come prevede l'articolo 8 della legge Severino, per le sentenze di condanna non definitive». Un punto rispetto al quale il candidato del centrosinistra non cerca scappatoie. «Valgono per me le leggi che valgono per gli altri, legge Severino in testa – rileva D’Alfonso - Non sono tipo da leggi ad personam, ricordo semmai che tra il 2004 e il 2005 fu confezionata al mio indirizzo una legge contra personam».
Big Luciano ribadisce di essere certo che anche in secondo grado sarà assolto. E si leva qualche sassolino dalla scarpa. «Mio malgrado, sono ragione dell'esistenza in vita di esponenti della comunità politica che trovano occasione per dichiarare su di me a prescindere – si lancia al contrattacco - Se questo è utile per loro, va bene anche per me. Per quanto mi riguarda, porto avanti gli impegni che ho assunto insieme alla mia coalizione con le comunità e i cittadini di questa regione, nel rispetto di tutte le regole che ci siamo dati, incluso il codice etico del Pd». Un altro codice, però, era stato presentato dalla coalizione alla vigilia delle primarie: annunciava l’adozione della Carta di Pisa, che se fosse stata applicata, avrebbe impedito a D’Alfonso di candidarsi.