ROMA Salta a sorpresa il matrimonio tra Etihad ed Alitalia. A un passo dalle nozze, ieri sera il vettore di Abu Dhabi si sarebbe tirato indietro, mettendo nero su bianco che non ci sono - almeno per il momento - le condizioni tecniche e quelle politiche per far decollare l’alleanza. Insomma, secondo quanto risulta al Messaggero i desiderata degli Emiri non sarebbero stati accolti dagli azionisti italiani nè il governo avrebbe offerto garanzie sufficienti. Di qui il dietrofront e la rottura traumatica di un corteggiamento durato mesi. Quasi una maledizione quindi, visti i precedenti con Air France.
I PALETTI
Come si è arrivati alla frattura? Come detto, i vertici della compagnia del Golfo non avrebbero ricevuto le garanzie richieste nè dal fronte governativo (rotte da Linate, collegamenti con l’Alta velocità per l’hub di Fiumicino, limitazione dei benefici delle low cost) nè sul nodo esuberi (tagli strutturali di almeno 3 mila posti) nè, infine, per quanto riguarda l’abbattimento del debiti da parte delle banche. Condizioni ritenute indispensabili per procedere all’ingresso nel capitale di Alitalia con una quota, almeno secondo i piani circolati, del 40-45% per un esborso complessivo di circa 500 milioni.
La notizia clamorosa, priva di conferme ufficiali all’ora in cui il Messaggero l’ha raccolta, è filtrata ieri proprio nel giorno in cui la trattativa avrebbe dovuto segnare la svolta con l’arrivo a Fiumicino della lettera d’intenti condizionata. E’ arrivata invece una doccia gelata che mette a rischio il destino stesso della compagnia tricolore che, come noto, senza un partner industriale e nuove risorse finanziarie non ha possibilità di sopravvivenza. Difficile dire però se la mossa degli emiri sia davvero definitiva o soltanto, come è possibile, un diversivo tattico allo scopo di ottenere quanto richiesto e spuntare condizioni migliori.
IL RIGORE
Di certo Abu Dhabi, lo sanno bene i negoziatori di Atlantia e i soci bancari, da quando è iniziata l’attività di due diligence ha fatto capire di non essere disposta a «fare beneficenza», ribadendo ad ogni occasione per bocca del presidente James Hogan, che l’operazione si reggeva solo a patto che fosse di mercato. A far indispettire gli uomini di Etihad sarebbe dunque stata non solo l’indisponibilità dei soci italiani a tagliare il personale oltre una certa quota (quella indicata dall’ad Gabriele Del Torchio è stata ritenuta insufficiente), ma anche la ritrosia delle banche, Intesa Sanpaolo e Unicredit in primis, ad accollarsi ulteriori oneri finanziari per 400 milioni, spalmando il debito che grava sulla compagnia. Etihad avrebbe invece voluto un taglio netto col passato e conti in ordini per disegnare un futuro senza incognite. Consapevole, naturalmente, di aver il coltello dalla parte del manico e di essere senza rivali.
Eppure, al di là delle schermaglie peraltro presenti in ogni trattativa, dal fronte italiano è sempre trapelato un certo ottimismo. Tant’è che l'azienda si era detta prontissima a convocare subito dopo Pasqua un cda per blindare l’unione. Lo stesso ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, aveva rassicurato sui tempi ormai imminenti della chiusura dell’operazione. Ribadendo che l'accordo con la compagnia araba sarebbe stato una «grande opportunità di sviluppo» perché, sottolineava, la lettera attesa avrebbe rappresentato «una grande proposta di rilancio della compagnia: da lì si deve partire». Quanto agli esuberi, non meno di 3 mila per Etihad, Lupi aveva tagliato corto incurante del raffreddamento che cominciava a circolare: «Non mi risultano i numeri che continuo a vedere sui giornali». Ora, ovviamente, tutto torna in alto mare. Senza una prospettiva chiara.