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Data: 23/04/2014
Testata giornalistica: Corriere della Sera
Da Alfano un sms ai suoi: «Sono in aereo, non fate cadere il Governo». Poletti si sfoga con Sacconi: avete ragione, cambieremo. Ma ora si teme sul Jobs Act. I renziani contro la commissione Cgil a Montecitorio

ROMA — Per ora l’unica cosa precaria è il testo del decreto sul lavoro, che il governo ha blindato alla Camera in attesa di cambiarlo al Senato. È il battesimo del «rottamatore» con i bizantinismi della politica, un’esperienza di cui Renzi avrebbe fatto volentieri a meno. Se non fosse che il premier ha la sua quota parte di responsabilità rispetto a quanto è accaduto ieri a Montecitorio, dove la maggioranza si è spaccata, costringendo infine Palazzo Chigi a porre la fiducia. L’irritazione del presidente del Consiglio per la piega che stavano prendendo gli eventi è cresciuta nell’arco della giornata, e poco è valso spiegare in corso d’opera ai suoi interlocutori che «così si sta danneggiando l’immagine del governo», o tentare in seguito di derubricare l’incidente, avvisando di non aver partecipato alla liturgia del vertice di maggioranza, perché impegnato con Delrio a preparare un vertice europeo sulla gestione dei fondi comunitari.

Se ha deciso di farsi intervistare dal Tg1, è stato per parare il colpo e scaricare sulle forze della sua coalizione le «inutili forzature» e le «bandierine elettoralistiche». E non c’è dubbio che questi elementi abbiano influito nello scontro, ma le mosse di Renzi — quella politica e quella mediatica — sono state la conseguenza di un errore tattico, siccome la mediazione del governo andava fatta prima che il decreto arrivasse in Parlamento e non due ore prima che approdasse nell’Aula di Montecitorio. A quel punto la logica del muro contro muro ha preso il sopravvento, cristallizzando le distanze nella maggioranza emerse la settimana scorsa alla Camera in commissione Lavoro, che non a caso i renziani hanno ribattezzato «commissione Cgil»: in quella sede — forte dei numeri — la sinistra del Pd ha ribaltato lo schema del provvedimento, lanciando un messaggio a Renzi (e Poletti) che sul decreto aveva messo la faccia (e la firma).

Ed è vero che il Nuovo centrodestra oggi dovrà votare la fiducia a un testo «indigesto», ma è altrettanto vero che gli alfaniani hanno sfruttato il colpo di mano della minoranza democratica per imbastirci un pezzo di campagna elettorale e prepararsi alla rivincita in Senato, dove i numeri giocano a loro vantaggio. Le versioni sul vertice sono contrastanti, ogni partecipante accusa l’altro di aver fatto saltare la trattativa. Ma è nota — e non da ieri — l’ostilità dell’ex ministro (di centrosinistra) Damiano verso l’attuale titolare del Welfare (anche lui di centrosinistra) Poletti. Meno noto è che Poletti nelle scorse settimane abbia più volte chiesto una mano a un altro ex ministro del Lavoro (però di centrodestra), Sacconi, affinché — con una serie di dichiarazioni — arginasse l’offensiva della sinistra democratica.

E ieri, dopo il patatrac, Poletti — che è il padre della riforma — si è sfogato proprio con Sacconi: «Avete ragione, abbiamo ragione. Vorrà dire che cambieremo il testo al Senato». Nel frattempo, magari, a Palazzo Chigi si mediterà più approfonditamente se sia il caso di offrire a Damiano la prestigiosissima poltrona dell’Inail o addirittura quella dell’Inps. Una cosa è comunque certa, l’esecutivo non rischia nulla. Ce n’è traccia in un sms inviato da Alfano in mattinata ai capigruppo ncd, alla vigilia della riunione di maggioranza: «Sarò in aereo per un paio di ore, evitate nel frattempo di fare cadere il governo», aveva scritto per evitare sorprese. Risposta a stretto giro della De Girolamo: «#angelinostaisereno»...

Insomma, più che nel Palazzo, è nel Paese che regna l’incertezza, perché è evidente che gli imprenditori non assumeranno forza lavoro prima della conversione in legge di un decreto dal testo ancora precario. Sono altri i problemi del premier. Uno è di immagine, dato che — per dirla con Sacconi — «Renzi non può fare annunci blairiani e poi accettare leggi jospiniane». L’altro è di strategia nell’azione in Parlamento. Quanto accaduto ieri sul decreto è rimediabile: al Senato il testo sarà modificato e tornerà poi alla Camera per una fiducia di ratifica.

Ma se questo è l’antipasto, cosa accadrà sul Jobs act? Il capo del governo non potrà permettersi simili passi falsi. Perciò Guerini, vice segretario del Pd e braccio destro del premier nel partito, avvisa che sulla legge delega «sarà necessaria una riflessione seria»: «Si discuterà per cercare di migliorarne il testo, a patto però di non snaturarne il profilo». È un segnale lanciato a tutti, sebbene sembri indirizzato soprattutto alla minoranza democratica. Sarà un caso, ma per evitare le forche caudine della «commissione Cgil» a Montecitorio, l’esame del Jobs act inizierà a palazzo Madama, lì dove Renzi è invece minacciato su un’altra riforma: quella del Senato.

Per la prima volta i grillini hanno deciso di far politica nel Palazzo, e pur di far saltare il banco tentano di saldarsi ai «dissidenti» del Pd e di Forza Italia sul testo «eretico» presentato dal democratico Chiti, contro cui ieri sera al Tg1 Renzi si è scagliato. Ma per ora il premier non dovrebbe aver problemi, dato che l’asse con Berlusconi regge: alla Camera la legge sul conflitto d’interessi è stata assegnata al forzista Sisto.

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