ROMA L’idea era dell’ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini ed è stata congelata con la caduta del governo Letta. Ma il successore Giuliano Poletti l’ha raccolta e fatta sua per cercare di rimediare ai guasti della riforma previdenziale della Fornero. L’ipotesi è questa: mandare in pensione, con l’ok delle aziende, le persone alle quali manca ancora un anno dal conseguimento dei requisiti che impongono 66 anni di età o 42 di contributi. Confindustria avrebbe già dato l’ok.
IL MECCANISMO
Si lavora ad una soluzione di questo genere: il contratto di lavoro viene risolto in anticipo con il consenso delle parti e l’Inps comincia da subito a pagare la pensione. Il datore di lavoro (pur facendo a meno della prestazione) copre i residui 12 mesi di contribuzione. E il neo pensionato restituisce, senza interessi, l’anticipo rinunciando negli anni a venire a qualche decina di euro al mese sull’assegno previdenziale. Costo per lo Stato: zero. Potenzialmente, sono 150 mila i lavoratori prossimi al riposo che potrebbero essere coinvolti in questa operazione. E, per fare un esempio di scuola, un 65enne (o un individuo un po’ più giovane con 41 anni di contributi) con un salario lordo di 30 mila euro annui potrebbe andare subito in pensione. L’azienda verserebbe 5 mila euro di contribuzione accollandosi così anche la parte (di regola un terzo) che spetta al lavoratore. Poi per circa 15 anni l’assegno mensile (con un importo medio di 1.200 euro) sarebbe decurtato di 25-30 euro. Fino alla completa restituzione del prestito iniziale. Le stesse regole varrebbero anche per le donne che, dal 2018, saranno equiparate agli uomini in fatto di età pensionabile.
DOSSIER CALDO
Al dossier lavorano Palazzo Chigi, Inps e ministero del Lavoro. E lo stanno facendo nel quadro di un progetto che è molto più ampio. «Ci sono tante imprese che sarebbero disponibili ad anticipare una buonuscita perché hanno bisogno di ricambio» ha spiegato Poletti nelle scorse settimane. Il ministro prepara un intervento esteso e articolato che renda possibili altri meccanismi di flessibilità in uscita. Tra le ipotesi quella di estendere il prepensionamento anche a soggetti che si trovano da 4 un solo anno dal riposo. Si tratta in particolare di persone che hanno perso il posto o che nelle aziende vengono ormai percepite come esuberi tagliati fuori dalle logiche produttive. In questo caso, le casse statali sarebbero coinvolte. E sono 600 mila le persone (e tra queste molti esodati) che potrebbero essere potenzialmente interessate alla nuova possibilità di uscita.
LA NOVITA’
Aziende e istituti previdenziali si accollerebbero, stavolta solo in parte, i costi della contribuzione. E ovviamente anche in questo caso il lavoratore (ma in un tempo più lungo e con un taglio più robusto sull’assegno) restituirebbe il prestito. Da alcune simulazioni, emerge che un piano di questa portata costerebbe circa 2,2 miliardi all’anno allo Stato. Ma questa cifra (un problema non da poco visto che si parla di flusso di cassa) sarebbe ridotta dalle entrate fiscali derivanti dai prepensionamenti e, ovviamente, dai contributi dei privati.
Sulla fattibilità di questo piano pesa però l’incognita Inps. L’istituto ha conti in ordine ma è già gravato dalla necessità di trovare 1 miliardo di euro in più per la cassa integrazione in deroga. E inoltre va considerato il coinvolgimento a pieno titolo nell’operazione del taglio Irpef da 80 euro in busta paga che, ha spiegato recentemente il premier Matteo Renzi, a regime verrà finanziato attraverso minori oneri sociali a carico delle imprese. In poche parole meno contributi e dunque meno incassi per l’Inps. Così, nonostante le intenzioni del governo, la coperta per finanziare un intervento sulla previdenza potrebbe diventare troppo corta.