ROMA Resta in bilico la soluzione del caso Alitalia-Etihad, che da telenovela rischia di trasformarsi in un giallo a tinte fosche. La palla, dopo la missione ad Abu Dhabi di Roberto Colaninno e Gabriele Del Torchio, è nel campo dei soci italiani, delle banche in particolare, che devono farsi carico dei debiti per sbloccare l’impasse visto che la Holding Alitalia, così come immaginata, non potrebbe sopportarne il peso.
IL NODO DA SCIOGLIERE
Sul tavolo degli azionisti la questione è aperta. Riguarda il funzionamento della Newco (l’Alitalia sana, 51% in mano Cai e 49% Etihad, con in pancia l’operatività, il personale non in esubero e una dotazione finanziaria di 800-900 milioni) e che, nello schema elaborato da Sergio Erede e dai soci Succi e Pessani, con i suoi dividendi dovrebbe ripagare i debiti cristallizzati nella «vecchia» Alitalia, la holding in cui finirebbero anche i contenziosi del passato. Ebbene, gli arabi e alcuni soci italiani, Poste ma non solo, hanno sollevato dubbi sulla funzionalità e sostenibilità di questa soluzione. C’è una netta contrarietà al fatto che i debiti finiscano in una società a monte della New Alitalia, la Holding Alitalia che sarebbe tutta in mano ai soci Cai. Si teme che l’architettura finisca col saltare in aria, trascinando il sistema nell’abisso. La holding farebbe fatica a camminare da sola, potendo contare solo sui flussi finanziari di New Alitalia che, specialmente in una prima fase, non saranno certo copiosi.
LA VIA D’USCITA
Tutto il macigno dell’indebitamento, ripetono con forza da Abu Dhabi, va quindi escluso dal perimetro delle due società. Perplessità che il ceo di Etihad, James Hogan, ha messo nero su bianco nella lettera inviata ieri ai soci di Cai. Nella missiva, con 5 puntualizzazioni, sono rimarcate le posizioni già note: dalla garanzie sul nodo esuberi (gli arabi non mollano e chiedono 3 mila uscite strutturali), al decreto per liberalizzare Linate (Lupi sta mettendo a punto il testo), fino al meccanismo salva contenziosi, che finirà probabilmente nella holding Cai, ma ancora non operativo. Insomma, dopo le rassicurazioni fornite da Roberto Colaninno e da Gabriele Del Torchio, il ritornello degli arabi è lo stesso: basta con le parole, ora servono i fatti.
Sa bene Hogan che per convincere il suo cda, particolarmente freddo in questa fase negoziale, ha l’obbligo di presentare al board non semplici promesse ma documenti scritti, approvati e timbrati dai soci Cai e, per la parte di competenza, dal governo italiano. Solo se nascerà un’Alitalia «pulita», senza debiti e pendenze del passato, Etihad aprirà i cordoni della borsa, investendo fino 560 milioni di euro. Altri 200 milioni arriveranno invece dagli italiani. E il debito? Va messo a punto un piano B, del resto già proposto nelle lettere ultimatum di Etihad e che prevede, come noto, la cancellazione e conversione sia del vecchia che della nuova finanza. Ecco perché il boccino torna alle banche. Di Intesa Sanpaolo soprattutto che, la settimana scorsa, essendo tra gli istituti più esposti (300 milioni circa), aveva caldeggiato lo schema Erede per evitare di convertire o cancellare il debito da subito. Probabilmente dovrà far buon viso a cattivo gioco. O virare improvvisamente verso Air France, svendendo la compagnia ed esponendola al rischio fallimento. Ieri, non c’è stato poi l’atteso incontro tra Lupi e Del Torchio (si sono sentiti solo telefonicamente), ma solo una visita dell’ad di Alitalia al ministero dell’Economia. Il governo, questa volta per bocca del ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ripete che «farà di tutto per favorire l’accordo». Sulla stessa linea il suo collega emiratino Abdullah Bin Zayed Al Nahyan, che ha incontrato Renzi e giurato, diplomaticamente, che l’intesa è a un passo.