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Data: 15/05/2014
Testata giornalistica: Rassegna.it
Decreto lavoro, riforme a perdere di Michele Raitano(*)

L'intervento del governo Renzi si muove nel solco liberista, in base al quale condizione necessaria e sufficiente per attivare l'occupazione e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori è la continua deregolamentazione di contratti e forme di accesso

Dopo settimane di annunci di Jobs Act che avrebbero rivoluzionato regole e caratteristiche del mercato del lavoro italiano, al momento l’unico intervento certo in ambito di politiche del lavoro del governo Renzi si muove nel tradizionale solco della visione liberista in base alla quale condizione necessaria e sufficiente per attivare l’occupazione e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori consiste nella continua deregolamentazione di contratti e forme di accesso all’occupazione.

Tale visione appare discendere dalla convinzione assoluta che il mercato del lavoro italiano sarebbe caratterizzato da un’eccessiva rigidità della normativa, che impedirebbe un’efficiente mobilità dei lavoratori, penalizzando in primo luogo le giovani generazioni. Per valutare opportunità e presumibili effetti del decreto lavoro in via d’approvazione in Parlamento bisogna dunque provare a dare risposta a una serie di domande considerate spesso retoriche da chi crede acriticamente nelle virtù taumaturgiche della flessibilità, ma che forniscono risposte ben più complesse di quelle utilizzate nel dibattito dai fautori della deregolamentazione.

Di seguito proveremo quindi a dare sinteticamente risposta a tre quesiti cruciali. C’è davvero molto poca flessibilità nel mercato del lavoro italiano? Un aumento della flessibilità ha comunque effetti certi positivi sull’occupazione? O, al contrario, soprattutto tenuto conto delle condizioni di contesto dell’economia italiana, un’ulteriore deregolamentazione potrebbe indurre ricadute negative sul benessere dei cittadini e sulla stessa crescita economica?

La risposta alla prima domanda porta invero a smentire una serie di luoghi comuni del tutto infondati riguardo l’esistenza di un mercato del lavoro caratterizzato da eccessive rigidità a tutela di chi ha un contratto a tempo indeterminato – gli “ipergarantiti” dal “posto fisso” – e da un’elevata segmentazione (un vero e proprio apartheid) a discapito di chi, soprattutto i giovani, è occupato con contratti atipici. In realtà, sia l’indice di rigidità della normativa a protezione dell’occupazione calcolato dall’Ocse – che evidenzia come l’Italia si situi all’interno del gruppo di paesi europei a medio-bassa rigidità –, sia l’osservazione dei dati effettivi sulle storie lavorative individuali – verificabili attraverso le indagini campionarie o i dati amministrativi dell’Inps – portano a confutare l’idea di rigidità e ipergaranzia dei lavoratori a tempo indeterminato. Tali dati mostrano, infatti, come, anche prima della crisi, il mercato del lavoro italiano fosse caratterizzato da molto frequente mobilità ascendente (da forme atipiche al tempo indeterminato) e discendente (dal tempo indeterminato verso forme atipiche o disoccupazione). In nessun modo, inoltre, mobilità ascendente e discendente risultano caratterizzare unicamente chi lavora in imprese con meno di 15 addetti.

Al contempo, i dati smentiscono l’idea che il tempo determinato rappresenti una condizione necessaria e sufficiente per una successiva stabilizzazione. Fra i neo-entrati in attività con un contratto a termine nel quinquennio precedente la crisi, poco meno del 50 per cento riusciva poi a ottenere un contratto a tempo indeterminato. Tuttavia, a conferma di un’elevata flessibilità in entrambe le direzioni, molti dei miglioramenti contrattuali erano di durata molto breve: circa un quarto di chi a inizio carriera passava dal tempo determinato all’indeterminato tornava poi in uno stato contrattuale peggiore nel giro di un biennio. Ciò sta chiaramente a dimostrare che le dinamiche lavorative effettive sono caratterizzate da una flessibilità molto ampia e sono ben lontane dall’immagine “temporaneo all’ingresso e poi per sempre permanente” che i proponenti della deregolamentazione dei contratti a termine sembrano sostenere. In altri termini, l’evidenza empirica sembra ben più complessa di quanto facilmente semplificabile attraverso l’immagine di un mero apartheid messo in atto dagli insider (gli anziani) per penalizzare gli outsider (i giovani) e lo stesso contratto standard non risulta nella gran parte dei casi indicativo di un’effettiva “stabilizzazione”, ma rappresenta sovente una semplice tappa di vite lavorative complesse e intermittenti.

Una semplice lettura in termini di “tempi di stabilizzazione” appare, dunque, del tutto insufficiente, a causa della frequente caduta dai contratti standard, anche in seguito a una precedente stabilizzazione da una forma atipica. Ed essendo così pervasive, tali frequenti cadute sembrano legate a deficienze strutturali del nostro sistema produttivo che si rispecchiano in una debole domanda di lavoro, piuttosto che ad aspetti regolamentativi quali le tipologie contrattuali di ingresso. Si pensi a tale proposito che chi iniziava a lavorare con l’apprendistato “pre-riforma Fornero” nella gran parte dei casi riusciva sì a ottenere un contratto a tempo indeterminato al termine del periodo di apprendistato, ma perdeva poi sovente tale stato contrattuale nel giro di pochi anni, un chiaro segnale del fatto che, in presenza di debole domanda di lavoro e scarsi incentivi alla formazione, l’apprendistato veniva utilizzato per mero risparmio di costo, anziché per formare adeguatamente lavoratori che sarebbero poi diventati indispensabili alle imprese. In questo quadro, ulteriori indebolimenti ai già deboli incentivi alla formazione degli apprendisti risulterebbero particolarmente dannosi.

Le riflessioni finora condotte ci portano quindi a dare risposta anche alla nostra seconda domanda. In presenza di una debole domanda di lavoro e di una struttura produttiva incentivata alla compressione dei costi piuttosto che a scelte verso investimenti innovativi, l’effetto occupazionale della deregolamentazione potrebbe essere molto limitato, se non nullo, e soprattutto di durata molto breve. Come mostrato dall’esperienza delle riforme degli anni novanta, la deregolamentazione dei contratti a termine permetterebbe forse alle aziende di sopravvivere nell’immediato riducendo il costo del lavoro, ma non le incentiverebbe affatto a porsi su un sentiero di competitività ad alta qualità, che consentirebbe, invece, migliori prospettive di lungo periodo per i lavoratori e per il sistema economicoproduttivo. D’altro canto, se i problemi dell’Italia discendessero solo da limiti dal lato dell’offerta e non fossero invece soprattutto imputabili a carenze della domanda di lavoro non si capirebbe perché i relativamente pochi laureati italiani delle giovani generazioni incontrano così forti difficoltà occupazionali e, in confronto con quelli delle generazioni precedenti e con i lavoratori meno istruiti, sono quelli che hanno registrato la maggior caduta retributiva, come mostrato da alcuni studi recenti.

Queste considerazioni, associate all’evidenza dell’esistenza di una relazione negativa fra incremento dell’uso dei contratti a termine e riduzione della produttività delle imprese italiane, portano a ritenere che, anche considerando le carenze del sistema istituzionale e di welfare (in primis degli ammortizzatori sociali) e della struttura produttiva, l’ulteriore deregolamentazione contenuta nel decreto lavoro attualmente in discussione possa indurre ricadute negative di breve e, soprattutto, medio-lungo periodo sugli incentivi delle imprese a muoversi verso comparti a più alta innovazione e produttività, sul benessere dei cittadini, a causa della riduzione dei salari e dell’aumentata incertezza da cui sarebbero colpiti, e sugli stessi livelli occupazionali, che potrebbero risentire negativamente della caduta della domanda aggregata limitata dai bassi investimenti delle imprese e dai deboli consumi delle famiglie.

In questo quadro così poco roseo, c’è allora da chiedersi perché continuare a intestardirsi su misure che appaiono, nel migliore dei casi, inefficaci, anziché muoversi immediatamente, come sarebbe auspicabile, verso misure che, da un lato, incentivino comportamenti virtuosi delle imprese e, dall’altro, realizzino finalmente un sistema universale di ammortizzatori sociali che tuteli effettivamente tutti i disoccupati, anziché solo alcune categorie di ex dipendenti licenziati. A ben guardare, la risposta appare semplice, anche se ben nascosta dai proponenti della riforma: l’ulteriore riduzione delle tutele dei lavoratori appare il modo più rapido per consentire un ulteriore indebolimento della loro forza contrattuale che determini un’ulteriore riduzione dei salari, che consenta alle imprese di abbassare il costo del lavoro e continuare a competere nell’immediato nei mercati internazionali. Il fatto è che, come argomentato, tale strategia è con ogni probabilità inefficace nell’immediato e sicuramente dannosa nel medio periodo. Ma, come si sa, le nuove esigenze della politica italiana danno valore alla sola velocità e al bisogno di dire di aver riformato, senza curarsi affatto dei contenuti e dei complessi effetti duraturi delle riforme.

(*) Dipartimento Economia e Diritto La Sapienza Università di Roma

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