PESCARA Antonio di Pietro, che effetto le fa leggere di nuovo un’inchiesta col nome di Greganti? «Mi è sembrato di tornare al febbraio 1992. Da allora non è cambiato nulla, anzi la situazione si è aggravata». In che senso? «Come ha detto giustamente Cantone, allora vi era un accordo tra partiti dove ciascuno cercava di lucrare dal sistema degli appalti e degli affari tra imprese e politica. Oggi il sistema dei partiti è superato e ha prodotto il sistema trasversale delle lobby d'affari e dei comitati d'affari». Perché siamo sempre lì al punto di partenza? «Mani pulite aveva scoperto questo tumore sociale dovuto al fatto che il sistema delle imprese non era stato il migliore sistema, ma quello che era riuscito meglio a corrompere la pubblica amministrazione ai vari livelli. E il sistema della politica non era fatto dai migliori politici, ma da quelli che erano riusciti meglio a esercitare il voto di scambio grazie ai fondi ricevuti. Stante questa anomalia tutta italiana, non si è cercato di curare la malattia sociale, ma si è messo in campo una serie di provvedimenti che hanno, come dire, “sbianchettato” il reato». Che cosa intende per sbianchettare? «Quello che era reato non è stato più reato, quello che era prova non è stata più prova, quello che si poteva fare in un certo tempo non si è potuto più fare in quel certo tempo. Oggi finanziare i partiti fino a 100mila euro non è più un reato, basta dichiararlo e lo scali pure dalle tasse». Riguardo all’inchiesta di Milano ha detto: speriamo che non gli mettano i bastoni tra le ruote come è successo a Mani pulite. Cosa intendeva? «Lì a un certo punto è iniziato un martellamento delle menti dei cittadini, che prosegue ancora oggi, secondo cui la colpa è di chi ha scoperto i reati e non di chi li ha commessi. E anche in questi giorni si insinua che tra quei magistrati di Milano ci sia una guerra tra bande». C’è in effetti una forte divisione nella procura di Milano. «Io li conosco tutti e so che quei colleghi sono in buona fede e discutono non per motivi politici ma tecnici». Se questa che stiamo vivendo è una seconda Tangentopoli, perché i cittadini danno più ascolto a Grillo e non a lei? «Per alcuni errori che ha fatto l’Italia dei valori e chiaramente io. Quando ho iniziato a fare politica ho capito che i cittadini chiedevano un ricambio generazionale della politica e leggi per combattere la corruzione. Era la stessa ratio dei 5 Stelle: in un certo senso siamo stati noi i primi 5 stelle». E cosa non ha funzionato? «L’errore è stato di aprire il partito a tutti. Questo ha permesso l’arrivo anche di voltagabbana e profittatori. Abbiamo un esempio in Abruzzo: ho preso un operaio con i capelli bianchi dalla Svizzera e l’ho portato in Parlamento, e lui ha fatto come Giuda». Sta parlando di Razzi. «Ecco, da questo punto di vista l’idea di Grillo di dire “da noi non entrano politici” può funzionare, ma questo non vuol dire che prima o poi non ti ritrovi addosso gli stessi problemi. Io non ho nulla contro i 5 stelle, però non puoi continuare a protestare, perché rischi di essere un partito di transizione. Io voglio che l’Italia dei Valori riprenda il suo cammino (senza il mio nome nel simbolo, senza candidarmi), per arrivare a governare, anche se oggi chi si candida nell’Italia dei Valori è chiamato più a seminare che a raccogliere. Per esempio ci dicono: perché in Abruzzo appoggiate D’Alfonso? Già, perché? In altri tempi non lo avreste accettato neanche nelle vostre liste. «Perché noi vogliamo responsabilmente costruire qualcosa. Perché giudichiamo il governo Chiodi deleterio per l’Abruzzo, ma non possiamo semplicemente fare opposizione: con pane e opposizione i cittadini non mangiano. Noi vogliamo far vincere la coalizione e poi fare i gendarmi perché faccia bene».