ROMA Latte certo. Ma anche formaggio, prosciutto, carne, pesce, ortaggi, vino. Si trovano più o meno tutte le eccellenze dell’alimentare italiano scorrendo le ragioni sociali delle circa 10 mila partecipate degli enti locali. Regioni, Comuni e Province non si occupano solo di fornire servizi pubblici ai propri cittadini, ma spaziano in un spettro di attività amplissimo, invadendo settori che sembrerebbero avere una vocazione più spiccatamente commerciale. Negli ultimi anni il numero delle società (e di riflesso delle poltrone) è cresciuto senza freni, tanto che gli organismi a cui tocca vigilare, come la Corte dei Conti, fanno fatica a stare al passo: con criteri più restrittivi ne hanno censite 7.500, anche statali. Il compito di disboscare è ora affidato al commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli che entro fine mese deve fare una proposta al governo.
Il core business dovrebbe essere rappresentato dai cinque servizi pubblici di base: acqua, elettricità, gas, trasporto pubblico locale, rifiuti. In realtà le partecipate che si occupano di queste attività sono solo il 20 per cento, anche se valgono circa la metà del fabbisogno complessivo. Poi ci sono farmacie comunali, terme, case di riposo, enti di promozione turistica, società sportive, di gestione del patrimonio immobiliare, agenzie di viaggio. Circa 320, secondo alcune stime recenti, sono le società il cui obiettivo è produrre beni o servizi la cui natura è senza ombra di dubbio commerciale. Insomma qualcosa che lo Stato, nelle sue propaggini territoriali, farebbe probabilmente bene a lasciare ai privati.
NON È UN AFFARE
Di sicuro c’è che il capitalismo locale non è un affare, soprattutto per il contribuente che prima poi è chiamato in una forma o nell’altra a ripianare le perdite: risulta in perdita circa un terzo delle società. A volte in modo clamoroso o incomprensibile. Non ci sono solo le ex municipalizzate delle grandi città: a Oderzo, in provincia di Treviso, la Fondazione Oderzo Cultura evidenziava nel 2012 un valore della produzione di 76.286 euro e un risultato negativo di 413.000. A Busseto in provincia di Parma, terra di Giuseppe Verdi, la Busseto Servizi metteva insieme appena 598 euro di valore della produzione riuscendo per ad arrivare a 10.000 di perdita. A l’Aquila il centro turistico del Gran Sasso era in rosso di oltre un milione e mezzo su una produzione di circa 1.850.000.
Moltissime realtà appaiono più che altro inutili: anche se le verifiche sono complesse e non univoche in un settore così magmatico, si stima che circa un migliaio siano quelle in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti. Insomma, salvo forse casi particolarissimi, veri e propri poltronifici. D’altra parte è noto come a partire dall’inizio del decennio scorso la giungla delle spa (o srl) pubbliche, comprese quelle locali, si sia allargata in tutte le direzioni soprattutto per due esigenze. La prima era aggirare le varie norme sul blocco delle assunzioni scaricando i costi del personale su entità esterne al perimetro della pubblica amministrazione. La seconda, ancora meno nobile, era trovare un posto a politici non più rieletti o ad altri personaggi contigui alla sfera partitica.
Accanto alla semplice esternalizzazione di attività, non sono mancati gli sforzi di fantasia. Nella Provincia di Salerno opera una Fondazione salernitani nel mondo, mentre a Oristano è stato creato dal Comune un istituto storico arborense che si occupa di ricerche sul Giudicato d’Arborea e il Marchesato di Oristano. Le ragioni del gusto sono ben rappresentate. A Roma c’è un’enoteca regionale, a Parma un’azienda agraria sperimentale che cura anche la vendita diretta dei prodotti biologici. Accanto ai caseifici non mancano le aziende che si occupano di carne: a Fabriano ad esempio la Agricom alleva bestiame bovino ed ovino precisando che si tratta di servizio di pubblica utilità perché bistecche e costolette vanno a rifornire le mense delle scuole comunali.