Ho vissuto mesi terribili e ho pensato al peggio, se sono qui lo devo a mia moglie, donna coraggiosa che mi è sempre stata vicina. E ora diventerò nonno
PESCARA «Non so se ce l’avrei fatta senza mia moglie, ho avuto momenti terribili, in cui ho pensato anche al peggio. È come semi fosse passato sopra un autotreno, ma il tempo dimostrerà che non ho fatto nulla di male e che sono io la vittima di tutta questa vicenda». Luigi De Fanis, l’ex assessore alla cultura della Regione Abruzzo di cui tutt’Italia si occupò per una storiaccia di presunte tangenti e per la controversa love story con la segretaria, Lucia Zingariello, ha accettato di rompere il silenzio che si è imposto in attesa del processo, che si terrà presumibilmente nella primavera prossima. La politica, per ora, è il passato: De Fanis da pochi giorni è tornato al lavoro di medico ortopedico, diviso tra gli ospedali di Lanciano e di Atessa. Come l’hanno accolta in reparto, dopo tanto clamore? «Molto bene, i colleghi, gli infermieri e anche i pazienti sono stati molto affettuosi. Una vecchietta mi ha detto solo: “dottò, bentornato tra noi”. E un altro ha aggiunto: se avvessi saputo di quel che sarebbe successo, non ti avrei votato, così restavi qui con noi ad Atessa. La gente bene di qui mi vuole ancora molto bene ». So che non è stato bene... «In medicina si dice che l’intestino è come il cervello, registra tutto quello che succede. E a me questa vicenda ha segnato anche la salute: una domenica di giugno ho cominciato a sentire dolori fortissimi all’addome. Ho capito che dovevo andare in ospedale e a Vasto sono stati molto bravi a farmi subito la diagnosi giusta: diverticolite con sospetto ascesso peritoneale. Mi hanno curato con una terapia molto forte di endovenose e antibiotici, ma il chirurgo mi ha avvertito che prima o poi mi dovrò operare». La vedo anche piuttosto dimagrito... «Qualche anno fa ero arrivato a pesare 144 chili, adesso non supero i 105. È dal 2012 che avevo iniziato a stare in riga, ma questa vicenda mi ha fatto perdere almeno 7-8 chili». È stata dura, mi diceva. «Durissima. Per mesi mi sono sentito un leone in gabbia, chiuso in casa a Montazzoli per gli arresti domiciliari. È un incubo che è iniziato il 12 novembre scorso, quando mi fa notificato il provvedimento di arresto e sono entrato nel tunnel di questo incubo». Davvero non si aspettava nulla di tutto questo? «Assolutamente. Girava voce, tra noi assessori regionali, che alcuni telefoni potessero essere sotto controllo, ma io ero certo di non avere nulla da temere. Poi è iniziata questo incubo e tutti i giornali parlavano del sottoscritto, trattato peggio di Totò Riina. E io rinchiuso, come un leone in gabbia, senza avere la possibilità di difendermi». Non dev’essere stato facile, recluso con sua moglie con tutti che parlavano della sua storia con la Zingariello... «Mia moglie è una donna forte, straordinaria, mentre di quella donna preferisco non parlare. Glielo ripeto: mi ha salvato la famiglia e adesso finalmente avrò una grande gioia, dato che a settembre mia figlia mi renderà nonno». Qual è stato il momento peggiore, in tutti questi mesi? «Il 6 febbraio ho avuto una mazzata terribile, quando il tribunale del riesame bocciò il mio ricorso contro la sentenza del Gip che disponeva gli arresti domiciliari. Lì ho avuto un crollo psicofisico, ero veramente disperato, mi sentito un uomo solo, ormai finito». Che rapporto ha avuto con i magistrati e con le forze dell’ordine? «Molto corretto, io capisco che loro hanno fatto il loro mestiere, ma senza arroganza. Le posso fare l’esempio degli uomini del Corpo Forestale dello Stato: venivano tutti i giorni a verificare che io rispettassi prima i domiciliari e poi l’obbligo di residenza, ma sono sempre stati professionali, rispettosi». Dicono che i suoi amici della politica l’abbiano abbandonata al suo destino... «Alcuni sì, altri sono stati molto affettuosi e vicini. Nomi? Beh, mi vengono in mente il senatore Fabrizio Di Stefano, l’onorevole Patriciello e, tra i consiglieri regionali, Antonio Prospero e Riccardo Chiavaroli, che mi scrisse una lettera commovente che ancora conservo». Poi che cosa è successo? «Ad aprile, finalmente, mi hanno revocato i domiciliari, fissandomi però l’obbligo di dimora a Montazzoli, il mio paese. Lì ho cominciato a respirare, a fare una vita normale, a incontrare gli amici che prima mi erano preclusi. E sono inziate le visite di chi, prima, poteva mandarmi solo un saluto tramite i miei avvocati. Sono venuti i sindaci dei paesi qui vicino, come Paglieta, Quadri, Guilmi...». Dicono che non corra buon sangue tra lei e Gianni Chiodi. «Ma no, io penso anzi che abbia gestito bene il dissesto della sanità, dovuto a vent’anni di sprechi, fatti da giunte di sinistra e destra. Però...». Però che cosa? «Come giunta siamo stati troppo ragionieri, abbiamo pensato più ai conti che a parlare con la gente, a spiegare il perché di certe scelte, ad ascoltare. E l’elettorato ci ha punito». Lei che è medico che consiglio darebbe al nuovo presidente, Luciano D’Alfonso? «Per quel che riguarda la sanità, il problema è ringiovanire, l’età media è troppo alta e ormai noi cinquantenni siamo i più giovani. Ma io lo so che per un chirurgo c’è una bella differenza tra la vista e la capacità di sopportare la fatica di un quarantenne e uno della mia età. Checché se ne dica, il nostro è un mestiere usurante, pieno di responsabilità. Io dovrei fare ogni giorno 6 ore e 20, ma quando mai mi fermo al mio orario? E mi lasci aggiungere una cosa». Prego. «A 54 anni sono ancora aiuto primario, se fossi stato il ras della politica che dicono pensa che non ne avrei potuto approfittare per fare carriera?». Me lo dica lei. «Le occasioni le ho avute, se solo avessi deciso di approfittane... ma la politica deve stare fuori dagli ospedali». Molti suoi colleghi di centrodestra parlano bene di D’Alfonso: lei che ne pensa? «È uno che ha la politica nel sangue e a Pescara come sindaco ha fatto bene. Lo conosco da quando entrambi eravamo nella Dc, ha grande esperienza e ha costruito la sua elezione con grande abilità, piazzando le liste a sostegno in modo capillare. Noi eravamo scoperti in troppe zone, tra cui guarda caso la mia. E poi, guardi, io sono per l’alternanza e gli auguro di fare bene, nell’interesse dell’Abruzzo». Non mi dirà che pensa ancora alla politica. «Certo che ci penso, si può fare politica anche lavorando a livello locale, senza cariche importanti. E comunque le assicuro che se avessi potuto ripresentarmi alle Regionali almeno quattro mila voti li avrei presi. E guardi che sono tutto consigliere comunale ad Atessa». Che cosa si rimprovera? «Di avere pensato di poter fare politica come ho fatto il medico: dando fiducia alla gente. E invece bisogna essere più duri, meno disponibili, fidarsi di meno». Lei è religioso, De Fanis? «Lo sono sempre stato, ma lo sono diventato ancora di più dopo la scomparsa di mio figlio, che morì in un incidente stradale nel novembre del 2007. Sono sempre stato devoto a Giovanni XXIII e quella terribile disgrazia mi ha avvicinato ancora di più al Papa Buono. È stato bello vedere che la Chiesa lo ha proclamato santo». Chi la conosce dice che proprio quella tragedia l’abbia reso un uomo molto più debole, vulnerabile. «Sì, è probabile di sì».