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Data: 03/08/2014
Testata giornalistica: Il Messaggero
Pensioni, conti salvi ma redditi a rischio. Bilancio dopo due anni e mezzo della legge Fornero: è assicurata la stabilità finanziaria, non l’adeguatezza dei futuri trattamenti soprattutto dei giovani

ROMA I conti sono al sicuro, le future pensioni degli italiani un po’ meno. La legge Fornero-Monti approvata nel 2011 è stata la sesta riforma della previdenza in Italia nell’arco di quindici anni e nelle intenzioni di chi l’ha voluta doveva essere quella definitiva. Oggi quel complesso edificio normativo inizia ad essere scalfito da eccezioni e salvaguardie, ma i numeri dicono piuttosto chiaramente che il riassetto deciso dal governo Monti sull’onda dell’emergenza finanziaria avrà effetti duraturi nel tempo, assicurando la sostenibilità della spesa previdenziale e più in generale delle finanze pubbliche.
GLI EFFETTI CUMULATI
In base al modello previsionale dell’Inps, anche tenendo conto delle tutele previste per i cosiddetti esodati, la spesa prevista per le quattro principali gestioni dell’istituto si ridurrà di oltre 80 miliardi nel solo decennio 2012-2021, grazie ai requisiti più stringenti previsti dalla riforma. E i risparmi proseguiranno negli anni fino ad azzerarsi intorno al 2045. Vanno nella stessa direzione le stime della Ragioneria generale dello Stato, che prendono in considerazione la spesa pensionistica complessiva. In totale le riforme approvate dal 2004 in poi (quindi la cosiddetta Maroni-Tremonti, l’introduzione dell’uscita legata all’aspettativa di vita, e infine appunto la legge Fornero) hanno prodotto risparmi pari a sessanta punti di Pil cumulati, fino al 2050. Di questi, circa un terzo deriva dalle sole norme del 2011. L’effetto è crescente nel tempo a partire dal 2012 e toccherà il livello massimo nel 2020, con una minore spesa pari all’1,4 per cento del Pil, ossia a oltre 25 miliardi. Anche in questo caso l’impatto è visto esaurirsi nel 2045: a partire da quell’anno la riduzione del numero di pensioni dovrebbe essere compensata dagli importi medi più elevati derivati dall’applicazione del sistema di calcolo contributivo.
Tutto a posto quindi? Fino a un certo punto. E il nodo sta proprio nel sistema di calcolo contributivo. La logica con cui è stata concepita non solo la legge Fornero, che ha disposto l’applicazione di questo schema pro rata su tutte le pensioni dal 2012 in poi, ma anche la stessa riforma Dini del 1995 che lo ha avviato seppur gradualmente, era quella di un’economia comunque in crescita pur se con alti e bassi legati al ciclo. E soprattutto di un’economia in grado di generare occupazione ragionevolmente stabile.
GLI ANZIANI DI DOMANI
In assenza di questi presupposti, e con un sistema previdenziale pubblico che resta a ripartizione (chi è al lavoro paga con i propri contributi le pensioni di chi è a riposo) si rischia uno squilibrio crescente tra le pensioni assicurate agli anziani di oggi e quelle a cui potranno puntare gli anziani di domani, ovvero gli attuali giovani. Le previsioni della stessa Rgs sui tassi di sostituzione (il rapporto percentuale tra la prima pensione e l’ultimo reddito da lavoro) evidenziano per i lavoratori dipendenti una discesa dall’attuale 70 per cento (ipotizzando 36 anni di contribuzione) al 58 per cento nel 2035-2040. Per i lavoratori autonomi (che hanno versamenti contributivi più bassi) va anche peggio perché il tasso è previsto crollare al 54,4 per cento già nel 2015 per poi scendere fino al 43 per cento. Sono dati già di per sé non molto confortanti, ma suppongono appunto che si possa vantare una carriera lavorativa di almeno 36 anni, e sono basati inoltre su uno scenario economico che - pur se prudente - con le lenti dell’attualità potrebbe apparire addirittura ottimistico: una crescita del Pil reale pari a circa l’1,5 per cento medio annuo e tassi di occupazione superiori a quelli attuali. Al momento l’attenzione è soprattutto sulla possibilità di smontare almeno in parte l’edificio della riforma Fornero, ma prima o poi anche questi problemi andranno affrontati.

Sul tavolo dei tecnici torna il prelievo sugli assegni più alti

ROMA Fare cassa riaprendo il dossier pensioni. La salute dei conti pubblici, minata da una crescita che non decolla e che non potrà certo essere lo 0,8% previsto dal governo nel Def, impone a Palazzo Chigi una riflessione sulla spesa previdenziale. Un capitolo che vale 236 miliardi di euro nel bilancio dello Stato e sul quale il commissario Cottarelli ha acceso i fari suggerendo un intervento energico. Con grande prudenza, il ministero del Tesoro si sta muovendo per cercare di capire in quale direzione agire e l’area individuata è quella delle pensioni più alte. Ma con un occhio puntato in particolare sui trattamenti frutto del calcolo retributivo, in soffitta con la riforma del ’95 che ha determinato il passaggio del calcolo delle pensioni al metodo contributivo. Questa operazione è stata attuata assicurando comunque il diritto di vedersi liquidare la pensione per intero con il metodo retributivo nel caso in cui nell'anno di entrata in vigore della riforma fossero già stati accumulati 18 anni di anzianità contributiva. Per tutti gli altri è stato previsto un meccanismo misto per cui la pensione viene liquidata in parte con il metodo retributivo e in parte con quello contributivo, in proporzione al numero di anni di anzianità contributiva ante e post riforma.
LA SIMULAZIONE
Ebbene l’ipotesi di riforma che circola in Via XX Settembre, e che è stata testata con alcune simulazioni, è applicare un contributo di solidarietà solo sulla parte dell’assegno previdenziale maturato con il sistema contributivo. La materia è scivolosa e fonti vicine al dossier raccontano che l’attenzione si è concentrata su una opzione che riguarda le pensioni che superano i 62 mila euro. In quell’area ci sono 186 mila persone (pari all’1,1% di tutti i pensionati) il cui costo è di 15 miliardi: il 5,5% del totale. L’ipotesi è applicare 4 aliquote (8, 21,28 e 37%) sulla parte di pensione maturata con il retributivo. Ovviamente le aliquote salgono con il crescere della parte che eccede la pensione calcolata con il contributivo puro. Tanto che, in alcuni casi di pensioni superiori a 200 mila euro, sono spuntati fuori non pochi risultati impressionanti. Ad esempio, un certo numero di assegni decurtati di 50-60 mila euro. Un effetto chiaramente distorsivo che avrebbe un impatto insostenibile dal punto sociale. Non indifferenti, invece, i risultati sul piano dei risparmi previdenziali: 800 milioni. Una versione applicata ad una platea più estesa è stata invece tentata prendendo in esame i pensionati sopra i 35 mila euro. Una soglia scelta non a caso in quanto si tratta di persone a riposo (600 mila individui) che stanno già pagando il blocco delle indicizzazioni all’inflazione previsto fino al 2016. In questo caso i risparmi di spesa, secondo una stima prudenziale, salgono fino a 2 miliardi di euro
Tuttavia, precisa chi sta seguendo la vicenda, questa pista è stata messa da parte. Sull’intero dossier, comunque, pesano un paio di incognite. In primo luogo perchè i dati Inps, in particolare per quanto riguarda i dipendenti pubblici, rendono difficile la ricostruzione della carriera previdenziale di centinaia di migliaia di italiani. E in secondo luogo perchè un provvedimento che taglia una pensione già maturata in forza di regole successive, espone il fianco alla censura della Corte Costituzionale.

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