«Quando arrivano questi dati che stai aspettando da dieci giorni è quasi una liberazione...». Matteo Renzi sorride, nel suo studio a palazzo Chigi mentre lo smartphone non smette di irrompere con messaggini dai suoi parlamentari tra Camera e Senato.
Il dato del Pil sul secondo trimestre è peggiore del previsto. L’Italia è tecnicamente in recessione. Che giudizio ne dà, presidente?
«Il dato è negativo, certo. Bene: vuol dire che noi lavoreremo di più. La grande chance è trasformare questo numero in occasione di accelerazione delle riforme. I collaboratori qui a palazzo Chigi e i parlamentari giustamente mi dicono: Matteo, ma stiamo già correndo tanto! E non posso dar loro torto. I parlamentari si lamentano di un eccesso di provvedimenti in aula. Ebbene, rispondo che semmai, dopo questi risultati economici, dobbiamo accelerare ancora di più».
Il Pil cala dello 0,2%. Il governo aveva previsto per quest’anno una crescita dello 0,8. Ci spiega come è stato possibile sbagliare le stime in un modo tanto clamoroso?
«Tutti i previsori hanno fatto stime superiori alla realtà ma io non mi soffermerei troppo sul dato, o rischio di diventare come tutti quelli che di fronte a un risultato negativo cercano giustificazioni».
«Continuo semmai a dire che dobbiamo fare un lavoro serio - prosegue il premier - per rimetterci in ordine con i conti e andare in pari»
Eppure tanti sono rimasti stupiti da questo dato negativo. Se considera l’entusiasmo del debutto a palazzo Chigi e l’adrenalina del dopo europee, c’è una doccia gelata sull’operato del suo governo. Teme conseguenze negative sugli investimenti stranieri?
«No, non sono molto preoccupato perché i soggetti stranieri stanno investendo molto in Italia, e continueranno a farlo non per farci un piacere ma perché è conveniente. E quando sarà finalmente operativo a 360 gradi tutto il pacchetto di riforme, l’Italia sarà il paese leader dell’Eurozona e non un problema dell’Eurozona».
Un punto di Pil equivale a 13-15 miliardi che vuol dire 7-8 miliardi di minori entrate. Pagheremo tre miliardi in meno di interessi sul debito, d’accordo. E’ anche vero però che in questo modo il deficit sale automaticamente e rischiamo di giocarci tutti i margini di flessibilità che abbiamo chiesto all’Europa. O no?
«Questo dato della crescita evidentemente ha una ricaduta in termini di costruzione del bilancio che però sostanzialmente, come lei accennava, è azzerata dal risparmio che abbiamo sui titoli di Stato: più o meno stiamo lì. Quindi non esiste un problema economico. E questo è il motivo per cui non c’è una manovra in vista».
Lo può garantire?
«Sì. Siamo partiti che avevamo lo spread a 200 e da una situazione di Pil a -1,8, quelli sì che erano dati negativi. Oggi siamo a un Pil che è a -0,3 mentre ci aspettavamo più o meno un +0,5 per chiudere allo 0,8%. Riusciremo a vedere dei segnali positivi? E’ presto per dirlo. Però il punto centrale per noi è non toccare minimamente la manovra di bilancio di quest’anno, a proposito della quale ricordo che abbiamo fatto un taglio delle tasse. Per la prima volta, ripeto, si sono tagliate le tasse. Ancora non se ne vedono i risultati? Questi dati vanno fino a giugno: comprendono appena un mese di bonus e l’abbassamento dell’Irap neppure c’era. I famosi 80 euro valgono per un sesto appena».
Sta minimizzando o sbaglio, presidente?
«Non sarò certo io quello che minimizza dal momento che mi sta a cuore che passi il messaggio dell’accelerazione delle riforme. Il punto vero oggi sarebbe: vogliamo aprire una discussione intorno all’Europa? L’Italia la può fare soltanto se si presenta al tavolo europeo dicendo: signori, noi il cantiere sulla giustizia civile l’abbiamo aperto, sul fisco idem, sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione pure. Abbiamo cominciato a spendere bene i fondi europei. Sulla cultura abbiamo smesso di buttare via i soldi e li investiamo per crescere. Se facciamo questo, siamo credibili altrimenti sono parole al vento».
Operazione fiducia, insomma.
«No operazione fiducia: operazione tenacia. E’ una cosa ben diversa. E le aggiungo che se fosse stata facile, non ci saremmo noi ora qui».
Si aprono problemi concreti, però. Se per il bonus degli 80 euro il problema era che forse non riuscirà più ad estenderlo, ora ci si chiede se riuscirà a mantenerlo...
«Questo non è un problema: abbiamo sempre detto che lo conserviamo. Anzi, l’altro giorno quando ne ho parlato mi sarei aspettato che i titoli fossero: Renzi conserva il bonus. Invece hanno titolato: Renzi non lo estende. Com’era quella del bicchiere mezzo pieno?... Sono 5 mesi che siamo qua e sono 5 mesi che stiamo dicendo che con le buone o con le cattive noi questo paese lo prendiamo per mano e lo portiamo fuori dalla crisi. Io, senza farmi prendere dall’angoscia o dall’ansia, dico: il quadro non è semplice, perché ci sono l’Ucraina e la Russia, perché c’è il Medioriente che sta come sta, perché hai la Libia, la Siria, l’Iraq... E pur tuttavia ce la faremo».
Uno dei problemi fondamentali resta quello del debito. Non esiste una ricetta del governo su questo tema.
«Nonostante la fama che ho di essere uno molto, come dire, rapido, sono in realtà molto metodico. Abbiamo scelto di metter mano per prima cosa al Senato, poi la legge elettorale e le altre riforme che stanno andando avanti, dalla competitività al lavoro, i 108 mila posti di lavoro in più tra maggio e giugno... tutta roba di cui non si parla. Tutte le discussioni sui macrotemi, il dibattito europeo, il taglia-debiti, invece oggi non sono all’ordine del giorno. Se oggi dico alla classe dirigente italiana che il problema è l’Europa o il taglia-debito, questa non farà quello che va fatto, ovvero rimettere a posto il paese».
E chi le impedisce di fare parallelamente le due cose? Non mette mano al debito per non scontentare alcune categorie che poi servono a vincere le elezioni?
«Io credo di trovarmi in una condizione per cui mi si può accusare di tutto meno che di captatio benevolentiae verso qualche categoria o gruppo di interessi. Tra quattro giorni o quattro anni posso andare a casa anche per sempre. Quello che non posso fare è fallire l’occasione di cambiare l’Italia. Per questo non mi pongo assolutamente il problema che così rischio di scontentare qualcuno. Sulla cosiddetta quota 96 siamo intervenuti ben sapendo che avremmo scontentato qualcuno».
A proposito, bel pasticcio quel punto del decreto P.A...
«Quando palazzo Chigi si è accorto di questa storia, l’ha bloccata. Chiusa la storia. Questa è la verità dei fatti. Il rapporto con Padoan è ottimo, andiamo nella stessa direzione».
Con Cottarelli un po’ meno, invece?
«La spending review è ontologicamente una questione politica...».
E quindi l’ha fatta un po’ arrabbiare con quella sua uscita.
«E’ un problema di serietà del racconto. La spending non può essere affidata a un soggetto esterno che viene chiamato come una sorta di demiurgo a sistemare il bilancio dello Stato. La spending nasce da ciascuno di noi».
Cottarelli sostiene che lei non vuole pubblicare quei 25 dossier che lui le ha dato e che potrebbero essere scomodi per palazzo Chigi.
«Palazzo Chigi di scomodo ha poco. Quei 25 rapporti... a proposito».
Il premier si volta verso il suo portavoce: «Ce li hanno consegnati poi? Perché io non li ho ancora visti...». Nuova interruzione: i tweet soddisfatti dei «noi l’avevamo detto» che dilagano in rete sul dopo Pil catturano la sua attenzione.
«Mi fa quasi tenerezza che questi siano così felici quando l’Italia va male», sospira Renzi. «I gufi... il loro obiettivo è sconfiggerci. Il nostro, cambiare l’Italia. Ecco perché le posso assicurare che con maggior determinazione di prima si va avanti. Gli italiani possono smettere di fidarsi di me se ne hanno voglia, anche se per il momento non mi risulta. Ma quello di cui non possono accusarci è la mancanza di chiarezza. La nostra scommessa è: cambiare le regole del gioco, Costituzione e legge elettorale. Avere un profilo più marcatamente mediterraneo e africano nella politica estera. Un grande investimento su cultura ed educazione. E un’operazione sulla spending. Ecco, con questi cinque punti la politica torna ad essere degna di questo nome».
Se la Ue non ci concede la flessibilità e la ripresa in Italia non arriva, la riporto sui conti presidente, a quel punto il governo Renzi che fa? Ce l’ha un piano B?
«La flessibilità che ci spetta noi ce la prendiamo, nel rispetto dei limiti del 3%. Nei prossimi mesi dall’Europa ci aspettiamo solo notizie positive dal momento che Juncker ci ha spiegato nel dettaglio che lui farà un piano da 300 miliardi e la Banca centrale ha fatto un’operazione da 200 miliardi di euro».
Privatizzazioni: sembrano al palo in questo momento. Che fine hanno fatto?
«A mio giudizio questo non è il momento di svendere. Avanti con le privatizzazioni, l’ha spiegato molto bene Padoan oggi, ma non con l’ansia di chi ha bisogno di realizzare. Iniziamo facendo un discorso serio, iniziamo dalle municipalizzate, dalle multiutility perchè alcune funzionano e altre no. Partiamo da lì, dalle cose difficili e iniziamo a disboscare la giungla di partecipate, di poltrone, di Cda e diciamo ai sindaci: noi vi diamo gli incentivi, ma voi mettete insieme le aziende. Se non lo fate poi non vi stupite se chiudiamo i rubinetti. Questo mi interessa. E mi interessa che il Fondo strategico sia a disposizione di questa struttura, come Cassa depositi e prestiti, per intervenire laddove le aziende possono essere accorpate. Penso a tutto il tema del trasporto pubblico locale, ai rifiuti...».
L’operazione Cdp con i cinesi va avanti dunque?
«Verrà il primo ministro di Pechino qui il 16 ottobre per firmare una serie di intese. Ci sono interessi cinesi anche per Termini Imerese, indiani per Taranto e Piombino. Ci sono interessi di varie nazioni, a partire da una cordata italoamericana per il Sulcis e per Gela. C’è una domanda internazionale forte che non viene gelata dal -0,3% del Pil. La mia scommessa è che questo dato non blocchi gli investimenti, ma sblocchi ancor più semmai le riforme».
Questo dato sulla crescita che non c’è, dopo cinque mesi di Renzi palazzo Chigi, non può essere letto anche come una bocciatura del suo governo?
«Io so che la scelta che abbiamo fatto, la ribadiamo e anzi la rilanciamo con più forza».
E le liberalizzazioni presidente che fine hanno fatto?
«Io rovescio il discorso e le dico che più che ragionare di liberalizzazioni penso si debba discutere di minore rendita. I primi che stanno rinunciando al potere di rendita sono i senatori della maggioranza, che da 15 giorni sono chiusi in quel palazzo sfidando un dissenso espresso talora con modalità inaccettabili proprio per affermare la fine del potere di rendita della politica. Quando lo fanno i politici per primi, allora puoi andare dal dirigente pubblico a dirgli che metti un tetto al suo stipendio, o dall’azienda privata e dire che il sussidio garantito di Stato non c’è più...».
O ai facchini dell’Alitalia di ridare i bagagli ai viaggiatori...
«I senatori di maggioranza son pronti al cambiamento, non tutti evidentemente lo sono. Il tentativo di ostruzionismo domato al Senato è un’altra faccia dei facchini dell’Alitalia o delle resistenze dei grand commis della P.A.. E’ l’idea che si possa cambiare stando fermi. Io non la penso così, e quindi si dimezzano anche i permessi ai sindacati. Vogliono ricorrere all’Europa? Ricorrano pure, anzi corrano. Noi non ci stanchiamo».
Non ha proprio nessuna autocritica da fare sulla sua azione di governo?
«Una? Dieci, cento! Sicuramente il coordinamento parlamentare dei decreti ha lasciato molto a desiderare, certamente per responsabilità mia, non so se più come premier o come segretario del Pd».
Lei ieri mattina ha incontrato a lungo Berlusconi per parlare, così si è detto, di riforme. Ma da più parti si sente dire che Forza Italia potrebbe sostenere anche alcuni provvedimenti economici del suo governo. E’ davvero ipotizzabile?
«No. Se ci sono singoli argomenti su cui sono d’accordo, ben venga, ma mi sembra difficile. Sulla giustizia, ad esempio, ho capito che non c’è un grande entusiasmo sul nostro piano di riforma. Quello che c’è è però un grande fatto politico: le riforme istituzionali si provano a fare insieme. Un fatto di civiltà del Paese. So bene che i dati sulla crescita creeranno un po’ di tensione: questa è stata la settimana del canguro, la scorsa quella del gufo, la prossima sarà dello sciacallo... E va bene, alla fine di questa estate zoologica a me preme che aumenti il numero degli occupati».
Quindi, tornando a Berlusconi, non esiste neppure un’ipotesi di appoggio esterno di Forza Italia?
«Non è in discussione. E peraltro questo tipo di ragionamento nega il valore civile, sociale, politico e culturale dell’operazione sulle regole, che ha un senso proprio nel momento in cui ci riconosciamo avversari politici».
Ma perché sul Senato, volendo accorciare i tempi e far risparmiare lo Stato, non ha optato per l’abolizione tout court anziché per questa soluzione più complicata e certamente meno popolare?
«Perché un sistema istituzionale non si disegna con la logica del gratta-e-vinci. Io semplifico nella comunicazione, ma vengo da una cultura politica per la quale le istituzioni non sono alla mercè del primo che passa. Nel progetto del Senato c’è un’idea politica forte: la convinzione che al paese serva una vera Camera delle autonomie. Noi non abbiamo vinto le elezioni del 25 maggio con un messaggio semplicistico ma di speranza su un nuovo modello di Italia che funziona. Questo è il cambio della sinistra che si preoccupa di essere non populista ma popolare».
Restando in tema di riforme, quanto rischia l’Italicum di assomigliare alla fine al vecchio Porcellum?
«Quanto la Coca Cola e il Barolo. Se ci fosse stato l’Italicum si sarebbe saputo subito chi aveva vinto tra Bersani, Berlusconi e Grillo. Con l’Italicum c’è un rapporto diretto tra elettore ed eletto: se non si mettono le preferenze sulla scheda ci sono solo quattro nomi, se si mettono accanto al capolista fisso poi sceglierà l’elettore chi altro vuole».
Ma le preferenze alla fine ci saranno?
«Io penso e spero di sì».
Un’ultima domanda, presidente. Ma per i due marò il governo sta facendo qualcosa? Quando torneranno? Non se ne sente più parlare...
«Stimo molto il nuovo premier indiano e credo che l’India e l’Italia insieme abbiamo il dovere e il diritto di riconoscersi partner e lavorare insieme».