Nell’epoca di Renzi e della sua opera di destrutturazione del vecchio sistema. Una pratica più raffinata della semplice rottamazione loro, i capi dei principali sindacati italiani, siedono senza timore sulle sedie di comando delle organizzazioni dei lavoratori. Il più longevo è Luigi Angeletti della Uil. Era il 13 giugno del 2000 quando fu investito della carica più alta. Per 14 anni ha ottenuto la fiducia dei suo delegati, mentre il mondo cambiava, la lira si trasformava in euro e a metà del suo mandato la più grave crisi dal dopoguerra investiva il mondo produttivo. Per quasi tre lustri, la Uil ha avuto un solo uomo al comando. Anche se ha già annunciato e confermato (nell’intervista a Il Tempo nella pagina accanto) che al prossimo congresso della confederazione non si ricanderà e lascerà il posto a un successore ancora non individuato. Fine di un regno dunque. A ruota, nella permanenza al vertice, lo segue il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni nominato nel 2006, sono dunque otto anni che il capo del sindacato più rappresentativo insieme alla Cgil è al timone delle confederazione. Un mandato considerevole e anche per lui tumultuoso considerato che ha dovuto affrontare recessione e crisi del debito. Per ora almeno per lui non ci sono segnali di passaggi del testimone.
Da ancora minor tempo siede sullo scranno più alto Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, promossa alla direzione solo nel 2010 prendendo il posto, però, di Guglielmo Epifani che nel sindacato di Corso Italia era rimasto al vertice per ben otto anni, dal 2002 al 2010. Mandato sprint quello invece concluso dall’ex segretario della Ugl, Giovanni Centrella: solo 4 anni, dal 2010 al 2014, prima di lasciare il posto al successore Geremia Mancini. Sulla cui permanenza al comando è presto per fare valutazioni.
Insomma la velocità e la rotazione delle cariche non sembra attagliarsi al mondo delle principali confederazioni che continuano a godere di benefici di legge per lo svolgimento delle loro attività. Come quello che nel pubblico impiego garantisce ai rappresentanti sindacali la possibilità di godere di distacchi dal posto di lavoro per trasferirsi a spese dello Stato a lavorare per la propria organizzazione. Una situazione sulla quale sta per scattare la mannaia del ministro Madia che, dal primo settembre, ha dimezzato il privilegio. Secondo una stima le risorse effettive che rientreranno sono probabilmente comprese tra 1.500 e 2 mila unità. Una riduzione netta di quelli che a molti sono sembrati finora dei privilegi non più sostenibili dalla finanza pubblica. C’è da considerare, infatti, che la risorsa lavorativa che si trasferisce in un ufficio di una sigla sindacale continua a essere pagata dall’amministrazione di competenza. Un costo al quale si aggiunge un secondo elemento e cioè che in alcuni casi, dove sono erogati servizi alla collettività coma la sanità, l’uscita di un medico va sostituita con un altro dottore che va regolarmente pagato. Questa la situazione del 2011.
Ma secondo i dati più aggiornati, nel 2012, i distacchi sindacali, stati pari a 845 mila giornate di lavoro corrispondenti all’assenza dal servizio di 2.315 dipendenti (dato medio ottenuti dividendo il monte ore per 365). Non solo. I permessi sindacali concessi per partecipare alle riunioni di organismi direttivi sono stati pari a 38.901 giornate pari con la conversione a un numero equivalente di 774 dipendenti assenti dal lavoro.