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Data: 04/09/2014
Testata giornalistica: Il Messaggero
Statali, poche risorse: stipendi bloccati anche nel 2015. L’annuncio del ministro Madia: serve uno sforzo di tutti. La Cgil: con il nuovo stop la perdita sale a 4.800 euro. Ministeri, Regioni e Comuni il governo cerca altri 3 miliardi

ROMA «In questo momento di crisi le risorse per sbloccare i contratti non ci sono. Prima di tutto guardiamo a chi ha più bisogno e quindi confermiamo gli 80 euro che vanno anche ai lavoratori pubblici, la decisione definitiva comunque verrà presa con la legge di stabilità». Niente aumenti. Punto. Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione, mette fine così al confronto, finora tutto mediatico, sui rinnovi che interessano più di tre milioni di dipendenti. Precisa che il blocco resterà almeno per tutto il 2015. E per il 2016? Chissà? Tutto dipenderà dalla riforma di settore e, soprattutto, dai soldi in cassa. Perché, per i rinnovi, ne serviranno tanti: tra i 5 e i 7 miliardi, secondo stime sindacali. Uno sforzo che, sollecita la responsabile della Pa, «dovrà coinvolgere tutti, governo e parti sociali».
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Una autentica gelata per gli statali che dovranno aspettare altri due anni - nella migliore delle ipotesi - per veder ritoccate le proprie retribuzioni, ferme da cinque. Un annuncio che arroventa il clima già surriscaldato in casa sindacale. Le confederazioni provano a tirare il primo lembo di quella rete che si chiama riforma dell’amministrazione pubblica e si accorgono di non aver pescato niente. Anzi. Hanno perso la metà dei ”distacchi”; dovranno assecondare i ”trasferimenti forzati” di una parte di dipendenti; ora sono chiamati ad accettare l’allungamento dei contratti di un altro anno, se non due. Nella rete, appunto, non c’è niente, se non una rabbia crescente. Cgil, Cisl, Uil e l’Ugl sono sul piede di guerra. Lo sciopero è nella testa se non ancora nei fatti. La rottura con l’esecutivo è totale o quasi, scaturita da tutta una serie di numeri che testimoniano le crescenti difficoltà della categoria. Lo stop agli aumenti ha prodotto finora 11 miliardi di risparmi, ma a fronte di un impoverimento di 3,3 del monte salari. I conti li ha fatti la Cgil: dal 2010 al 2013 ogni statale ha perso mediamente 3.600 euro lordi; altri 600 ne perderà nel 2014. E ancora 600 nel 2015. Totale, 4.800 euro.
«Se il governo pensa di umiliare ulteriormente i dipendenti pubblici - avverte Rossana Dettori della Cgil - torneremo nelle piazze. Il blocco è intollerabile». «Eliminino gli sprechi negli enti locali - attacca il leader Cisl, Raffaele Bonanni - ma non tolgano i soldi agli statali». Antonio Foccillo (Uil) prevede un autunno caldo. La Madia vorrebbe chiudere la partita sulla delega di riforma entro l’anno: «Se la discussione procede spedita saranno necessari uno o due mesi». Il ministro a breve convocherà le organizzazioni dei lavoratori per stabilire i criteri per la mobilità obbligatoria che prevede il trasferimento dei dipendenti da una sede all’altra nel raggio di 50 chilometri. Ieri la Commissioni Affari costituzionali ha iniziato a discutere le varie misure, dalla licenziabilità per i dirigenti pubblici alla realizzazione di un ufficio unico del governo sul territorio. Ma l’iter, secondo i sindacati, non sarà così rapido.
Per Michele Gentile, responsabile Cgil del settore pubblico, «la delega necessita di 26 provvedimenti attuativi e serviranno due anni per discuterli tutti».

Ministeri, Regioni e Comuni il governo cerca altri 3 miliardi. Servono risparmi ulteriori da destinare agli investimenti, oltre ai 17 già in cantiereIl premier intende chiedere a tutti gli enti una riduzione fissa della spesa pari al 3%

ROMA Tre miliardi in più da trovare nel 2015 per destinarli agli investimenti - rispetto al già complicato obiettivo di metterne insieme 17 tagliando la spesa. Ma quello annunciato da Matteo Renzi sembra soprattutto un cambio di linea rispetto all’impostazione fin qui data alla spending review. I venti miliardi complessivi dovrebbero infatti essere ottenuti con una riduzione del 3 per cento rispetto alla massa di circa 700 miliardi di spesa pubblica, da realizzare in ciascun ministero, ente locale, amministrazione o altro centro di spesa.
Apparentemente, si tratta di un passo indietro, di un ritorno alla vecchia logica dei tagli lineari. Tutto dipenderà, naturalmente, da come poi questo obiettivo sarà perseguito nella pratica. Lo stesso presidente del Consiglio, intervistato dal Sole 24 Ore, ha annunciato di voler iniziare nei prossimi giorni un giro nei vari dicasteri insieme al ministro dell’Economia, per discutere le modalità dell’operazione. Ed è chiaro che su ampie voci della spesa pubblica non è possibile applicare automaticamente una decurtazione percentuale pur se limitata. Il totale delle uscite pubbliche supera di poco gli 800 miliardi (809 sono quelli previsti nel 2014): escludendo gli interessi sul debito si arriva a 726, togliendo anche gli investimenti si arriva a 681, grandezza molto vicina a quella a cui indirettamente ha fatto riferimento Renzi. Ma dentro ci sono anche 260 miliardi che se ne vanno in pensioni e quasi 163 che corrispondono agli stipendi dei dipendenti pubblici: sul primo capitolo il premier ha praticamente promesso di non intervenire, sul secondo agisce già il blocco dei contratti (esteso al 2015) oltre il quale pare difficile andare. Ci sono poi anche i soldi che vanno all’Unione europea e altre uscite che dipendono da impegni di legge. Due anni fa l’allora ministro Piero Giarda nel suo lavoro di ricognizione della spesa pubblica aveva quantificato in circa 100 miliardi la quota di spesa pubblica aggredibile in tempi brevi e in 300 quella che poteva essere oggetto di interventi di medio-lungo periodo.
I DUBBI SU COTTARELLI
Insomma il compito si preannuncia tutt’altro che facile. Resta da capire che ruolo avrà in tutto ciò il lavoro di Carlo Cottarelli, nato per superare la logica delle riduzioni in percentuale andando a distinguere i programmi di spesa non meritevoli di essere finanziati da quelli utili al Paese. Pare di capire che le amministrazioni interessate, chiamate comunque a garantire l’obiettivo di risparmio del 3 per cento o giù di lì, potrebbero se lo vogliono seguire le indicazioni del commissario, oppure muoversi diversamente.
Ma c’è un’altra parte dei piani messi a punto al Mef che Renzi pare aver messo in discussione: è quella relativa alle privatizzazioni. Escludendo una cessione entro l’anno di ulteriori quote di Eni ed Enel, e frenando sulla vendita di partecipate degli enti locali, il presidente del Consiglio ha messo una seria ipoteca sull’obiettivo di ricavare per questa via lo 0,7 per cento del Pil ogni anno a partire dal 2014: qualcosa come 11-12 miliardi. Dopo il rinvio al 2015 della messa sul mercato di Poste, una rapida cessione di un altro pezzo dei due colossi energetici avrebbe permesso di racimolare circa la metà della somma desiderata. Ora questo obiettivo appare del tutto fuori portata e il Tesoro può sperare solo di recuperare il tempo perduto a partire dal prossimo anno.

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