Bernardini scrive al commissario dell’Ente idrico: non è applicabile al mio caso
PESCARA Il primo «invito urgente alle dimissioni» diramato attraverso la direttiva dal presidente della Regione Luciano D’Alfonso è caduto nel vuoto: Fabrizio Bernardini, il segretario generale dell’Ato pescarese, non ha intenzione di dimettersi e, da ieri, ha ingaggiato il primo botta e risposta con il commissario unico dell’ente idrico Pierluigi Caputi. All’invito di Caputi a rassegnare le dimissioni perché condannato, Bernardini ha risposto che «non sussistono le condizioni, non sussistono cause di incompatibilità o inconferibilità del mio incarico». Cadrà la testa?. Rischia di diventare un caso la prima testa coinvolta dalla direttiva del governatore che, recependo l’articolo 3 del decreto legislativo dell’8 aprile 2013, ha scritto a tutti i direttori pro-tempore della Regione di adottare «necessari e immediati provvedimenti (invito urgente di dimissioni e in caso di inadempienza, revoca tempestiva)» nei riguardi «degli amministratori degli enti nelle società partecipate che abbiano riportato sentenze penali di condanna non definitiva per reati nei confronti della pubblica amministrazione». E Bernardini è tra questi. Il segretario generale dell’Ato è finito nell’inchiesta sulle “spese d’oro” dell’Ato che ha coinvolto altri nomi tra cui l’ex presidente dell’Ato Giorgio D’Ambrosio. Bernardini, pescarese di 44 anni e anche segretario generale della Provincia (incarico immune dalla direttiva), è stato accusato di falso e ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato. Il 20 febbraio 2013 il giudice per le indagini preliminari Gianluca Sarandrea l’ha condannato a un anno di reclusione (pena sospesa) e a un anno di interdizione dai pubblici uffici, tempo ormai trascorso. La sentenza è stata appellata. «Il rito abbreviato beffa». Se per gli altri nomi coinvolti nell’inchiesta il processo è ancora in corso, per Bernardini la scelta del rito abbreviato, come sottolinea anche lui, è diventata quasi una «beffa»: perché per il segretario la sentenza è arrivata oltre un anno fa mentre per gli altri nomi coinvolti il processo deve ancora partire. A questo punto, il commissario Caputi ha recepito l’”ordine” di D’Alfonso e ha inviato a Bernardini poche righe stringate: «In osservanza alla direttiva in oggetto pervenuta», ha scritto il commissario unico straordinario dell’Ato, «sono ad invitarla a rimettere le dimissioni dell’incarico». «Ho ricevuto la nota del commissario intorno alle 14.30 di martedì», racconta Bernardini, «e alla comunicazione di Caputi ho risposto con una dichiarazione tecnica, che approfondirò, in cui dico che l’articolo 3 del decreto legislativo richiamato da D’Alfonso non è applicabile al mio caso. Non ci sono le condizioni né per dimettermi né per essere legittimamente revocato dal mio incarico. Nei miei confronti non sussistono cause», dice il segretario generale dell’Ato che, più in là, risponderà in maniera più approfondita al commissario. «Non ci sono le condizioni per dimettermi». Per il momento, quindi, il segretario non ha intenzione di dimettersi «ma non perché non voglia lasciare il posto», spiega, «ma perché l’articolo 3 non è applicabile al mio caso». Bernardini, così, si riserverà di approfondire e di stilare una relazione a Caputi che, a sua volta, dovrà prendere una decisione con la scure della direttiva dalfonsiana che dice anche: «Eventuali inadempienze e inosservanze comporteranno responsabilità in capo agli stessi direttori». Non è ancora chiaro cosa Bernardini scriverà nella relazione ma tra i dubbi ci potrebbe essere anche la data della condanna: la sentenza è arrivata nel febbraio 2013, un mese prima del decreto legislativo e Bernardini, inoltre, ha già “scontato” l’anno di interdizione dai pubblici uffici. La prima testa, quindi, al momento non è ancora caduta.