PESCARA Giovanni Legnini mette d’accordo tutti. O quasi. L’elezione del sottosegretario abruzzese al Consiglio superiore della magistratura, con il (molto) probabile incarico di vicepresidente, soddisfa anche l’ostico capogruppo dei deputati di Forza Italia Renato Brunetta: «Auguri al presidente Legnini, persona di correttezza e competenza riconosciute da tutti». Meno il Movimento 5 Stelle, e c’era da aspettarselo, che legge il passaggio del sottosegretario a piazza Indipendenza come una presa di potere di Renzi dentro l’organo di autogoverno della magistratura. Il problema vero è in Abruzzo, dove la nomina del senatore di Roccamontepiano a membro del Csm (incarico incompatibile con quello di parlamentare) apre due problemi: una nella rappresentanza della regione in seno al governo; l’altro nella composizione dell’esecutivo regionale. Sulla prima questione Legnini da Roma rassicura di non essere disinteressato alle sorti dell’Abruzzo, tutt’altro, pur consapevole, fa notare ai tanti che in queste ore lo hanno chiamato, che il nuovo ruolo gli impone imparzialità e riservatezza. E comunque il Pd abruzzese spera che un posto di sottosegretario resti appannaggio di un eletto della regione. Un auspicio, espresso chiaramente dal segretario regionale Silvio Paolucci subito dopo l’esito del voto in Parlamento. Ma questo è un auspicio che porta direttamente al secondo problema: la composizione del governo regionale. Lasciando lo scranno di Montecitorio Legnini passerebbe il testimone a Giovanni Lolli, primo dei non eletti alla Camera nella circoscrizione abruzzese. Lolli è anche vicepresidente della giunta e assessore alla Ricostruzione. In queste giorni dovrà decidere se lasciare l’incarico per trasferirsi a Roma o restare a Palazzo Silone al fianco di Luciano D’Alfonso. Il governatore vorrebbe tenerlo con sè per non alterare gli equilibri territoriali della sua giunta (e per inciso la rinuncia di Lolli aprirebbe le porte del Parlamento a un fedelissimo di D’Alfonso come Gianluca Fusilli). Lolli accetterà di restare? All’Aquila scommettono di sì, e lui stesso lo ha riabadito ieri in un’intervista a Rai Regione («Sono legato a questo progetto»). Ma il discorso non sembra chiuso. Se il passaggio a Roma fosse direttamente nel governo come sottosegretario con delega alla ricostruzione dell’Aquila Lolli farebbe subito le valigie (ma poi Renzi dovrebbe trovare un altro nome cui affidare le complesse deleghe economiche fino a oggi seguite da Legnini). L’incarico a Lolli potrebbe maturare grazie alla sua appartenenza alla minoranza cuperliana. Se il bersaniano Legnini lascia l’incarico di sottosegretario, si ragiona nel Pd, il posto non può toccare a un renziano. È per questo, per esempio, che l’eventuale candidatura della renziana Stefania Pezzopane potrebbe tramontare prima di essere proposta. Così come non dovrebbe affacciarsi il nome di Yoram Gutgeld, eletto sì in Abruzzo, ma troppo renziano. Se Lolli dovesse accettare lo scranno si aprirebbe il problema della successione in giunta. D’Alfonso guarderà innanzitutto all’interno della sua maggioranza e tra i consiglieri aquilani, perché, partito Lolli, L’Aquila resterebbe senza assessore. Due sono i nomi: il presidente del Consiglio Giuseppe Di Pangrazio, marsicano di Avezzano, e l’aquilano Pierpaolo Pietrucci. Se D’Alfonso dovesse mantenere l’assessore esterno, nella rosa aquilana potrebbe entrare l’ex consigliere Giovanni D’Amico. Ma D’Alfonso potrebbe anche decidere di sparigliare le carte e scegliere un nome non legato a una precisa identità territoriale, come per esempio la ginecologa teramana Anna Marcozzi. Intanto vanno registrate alcune reazioni all’elezione di Legnini. A partire dalle preoccupazioni della parlamentare Pd Vittoria D’Incecco: «La sua elezione priva l'Abruzzo di un fondamentale punto di riferimento nella compagine di Governo. Un vuoto che auspico venga al più presto colmato con la nomina di un altrettanto valido rappresentante abruzzese».
Le Camere riunite in seduta comune non riescono ad eleggere per la nona volta consecutiva i due giudici alla Corte Costituzionale che dovrebbero sostituire i componenti «scaduti» a fine giugno: Luigi Mazzella e Gaetano Silvestri. I due candidati, sui quali si era detto che le forze politiche non avrebbero avuto difficoltà a convergere, Luciano Violante e Antonio Catricalà, non raggiungono, per la terza volta di seguito, il quorum previsto dei 3/5 dei componenti, cioè 570 voti. L'ex presidente della Camera ne incassa «solo» 468 (39 più di ieri. Ne aveva presi 429). Mentre all'ex capo dell'Antitrust ne arrivano 368 (un «salto» rispetto ai 64 di ieri sera). Entrambi risultati non sufficienti ad aprire le porte della Consulta. Sul fronte Csm, il Parlamento riesce nella sua impresa solo a metà (quasi) eleggendo, dopo sei fumate nere, 3 degli 8 candidati: l'attuale sottosegretario al Mef, Giovanni Legnini; l'ex vicepresidente della Camera Antonio Leone (Ncd); l'ex responsabile Giustizia della Margherita e sindaco di Arezzo, Giuseppe Fanfani. Sugli altri 5 tutto sembra ancora in alto mare. Soprattutto perchè l'accordo sul Csm sembra indissolubilmente legato a quello sulla Consulta. Teresa Bene (Pd) riceve 480 voti; Elisabetta Casellati e Luigi Vitali (FI) rispettivamente 473 e 451; Renato Balduzzi (Sc) 462; Nicola Colaianni (M5S) 425; Alessio Zaccaria (M5S) 127. Nessuno sfonda il quorum (3/5 dei votanti) che oggi è di 490 voti. Così il Parlamento in seduta comune deve replicare. E i presidenti delle Camere, Boldrini e Grasso, che già nelle ultime ore avevano raccolto l'appello del Capo dello Stato della scorsa settimana proclamando il voto a oltranza fino al completamento delle squadre per Consulta e Csm, fissano la prossima seduta per lunedì 15 settembre alle 15.