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Pescara, 24/11/2024
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20/09/2014
Il Messaggero
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Lavoro, Renzi sfida la Cgil. Camusso contro il governo: come la Thatcher. La replica: difendete le ideologie, non i precari. Ultimatum del premier ai dem: se non passa la riforma si vota |
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ROMA Cgil e governo ai ferri corti sulla legge delega per il lavoro. Alla luce del testo che giovedì ha avuto il primo via libera in commissione al Senato, Susanna Camusso afferma che Matteo Renzi «ha un po’ troppo in testa il modello della Thatcher» e non esclude uno strappo che porti alla proclamazione di uno sciopero generale. Ascoltata la leader della Cgil e di fronte alla mobilitazione della minoranza dem, che con Pier Luigi Bersani annuncia che sul Jobs act e sull’articolo 18 «sarà battaglia in aula», il premier risponde per le rime: «Quando noi pensiamo al mondo del lavoro - dice Renzi - non pensiamo a Margaret Thatcher, ma a quelli a cui non ha pensato nessuno in questi anni e che sono condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito preoccupandosi solo dei diritti di qualcuno e non di tutti». Il corpo a corpo con la Cgil, condotto via Facebook dal premier, continua con il rimprovero al sindacato di «aver pensato a difendere solo le ideologie e non i problemi concreti della gente: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi no, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario?». Gli argomenti del sindacato trovano ascolto nella minoranza del Pd che si appresta a dare battaglia con una pioggia di emendamenti al Jobs act nel corso della discussione sul ddl in aula. I toni non sono quelli di Nichi Vendola che parla di «deriva orwelliana» e di «porcherie di estrema destra», ma c’è chi, come Stefano Fassina, definisce «inaccettabile» l’attuale testo della legge. Ed è l’ex segretario Bersani a sottolineare i punti di scontro con il progetto del governo, tra cui il nodo del reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa. Alla luce dell’entusiasmo mostrato da esponenti del Ncd come Maurizio Sacconi per l’impianto della legge, Bersani parla di «norme che aggiungono ulteriore precarietà all’attuale precarietà. Altro che modello tedesco, così Renzi rischia di frantumare i diritti dei lavoratori. La riforma - aggiunge l’ex leader del Nazareno - ci vuole, ma deve essere seria e non una bandierina da sventolare di fronte agli elettori o all’Europa». Interrogato da Radio Montecarlo sul rischio che la corda tra maggioranza e minoranza dem si spezzi, Bersani lo ritiene «possibile» anche se precisa di «sperare proprio di no». SPIGOLI SMUSSATI D’altra parte, più di un esponente dell’entourage più prossimo al premier si è preoccupato ieri di smussare gli spigoli con l’ala bersanian-cuperliana. «Le discussioni - ha osservato Graziano Delrio - aiutano a migliorarsi, l’importante è che non ci siano ultimatum o posizioni ideologiche e si esca dall’ossessione dell’articolo 18». Il sottosegretario alla presidenza cerca inoltre di tranquillizzare la minoranza definendo improbabile il ricorso del governo al decreto legge. Lo stesso fa il responsabile economia del Pd, Filippo Taddei, affermando che il governo non punta a un decreto per approvare la legge entro l’8 ottobre, giorno della conferenza Ue sul lavoro a Milano, bensì al primo via libera del Senato entro quella data per dare un segnale ai partner europei, lasciando alla Camera la possibilità di intervenire successivamente sul testo. A sua volta, il vicesegretario Lorenzo Guerini dice di credere che nella direzione pd del 29 «si possa trovare un punto di incontro» con la minoranza. Mentre l’altro vicesegretario dem, Debora Serracchiani, osserva che «se nel testo attuale l’istituto del reintegro non è previsto, ciò non vuol dire che non possa essere previsto nelle prossime versioni». La presidente della Regione Friuli afferma inoltre che il contributo del sindacato sulla riforma «è assolutamente necessario» e i suoi aggiungono che le priorità sono la riforma degli ammortizzatori sociali, la fine dei Co.co.co e una legge sulla rappresentanza. A mostrarsi assai meno flessibili sul testo della legge sono gli esponenti del Ncd. Gaetano Quagliariello sostiene che il ddl «deve essere approvato quanto prima nel testo convenuto tra governo, relatore e maggioranza. «In caso di resistenze e ostruzionismi, il governo - avverte il coordinatore nazionale del Ncd - ha il diritto e il dovere di anticipare i contenuti più urgenti della delega con un decreto legge».
Ultimatum del premier ai dem: se non passa la riforma si vota «Sarebbe davvero dannoso per il Paese restare a vivacchiare nella palude dei veti»
ROMA Matteo Renzi sulla riforma del lavoro non arretra «di un solo millimetro». Ed è pronto ad usare la minaccia delle elezioni anticipate per piegare la resistenza della minoranza del Pd: «Sono stufo della battaglie ideologiche e di retroguardia, qui si tratta di dare tutele a tutti superando l’apartheid tra lavoratori garantiti e quelli senza diritti», ha confidato, «e se questa riforma verrà negata, si andrà sparati alle elezioni. Sarebbe dannoso per il Paese vivacchiare nella palude dei veti». Il video diffuso a metà pomeriggio su Twitter e Facebook, dopo che Susanna Camusso l’aveva paragonato alla Thatcher e Pier Luigi Bersani aveva annunciato una «valanga di emendamenti» e «sicura battaglia», la dice lunga sulla determinazione di Renzi. In quel filmato il premier se la prende con la leader Cgil e i sindacati (perfino l’amico Landini l’ha attaccato a testa bassa), ma in realtà inquadra nel mirino anche la minoranza del Pd. Le accuse sono pesanti: sulla base di un pregiudizio ideologico avete colpevolmente favorito la creazione della Grande Ingiustizia, quella che ha diviso i lavoratori tra cittadini di serie A e serie B e negato i diritti ai precari. «Il governo, invece, pensa a una riforma in cui i lavoratori sono tutti uguali». Un antipasto di «quanto dura sarà la guerra» e di «quanto forte sarà la mia determinazione». L’obiettivo di Renzi è arrivare al sì del Senato sulla legge delega denominata Jobs act entro l’8 ottobre. Proprio quel giorno a Milano si riunirà infatti il vertice europeo convocato dal premier per parlare di occupazione. «E all’estero, dal Fmi alla Bce, dalla Commissione europea ai mercati finanziari», dicono a palazzo Chigi, «attendono la svolta sul mercato del lavoro per avere certezza che facciamo sul serio e per concedere all’Italia quella flessibilità sui conti indispensabile per evitare nuove manovre lacrime e sangue». LA ROAD MAP PER IL SÌ
Prima dell’8 ottobre, Renzi lavorerà a ingabbiare la minoranza Pd. Lo schema che utilizzerà sarà quello risultato vincente in estate per incassare il via libera di palazzo Madama alla riforma del Senato: il 29 settembre riunirà la Direzione del partito. E lì otterrà, «a stragrande maggioranza», il sì del Pd alla riforma del lavoro. Ma per ottenere quel sì, il premier dovrà mantenere coperte alcune carte. La più importante (e delicata): se abolire il reintegro in caso di licenziamento illegittimo solo per i neo assunti (come attualmente prevede il Jobs act), o se cancellarlo anche a chi il reintegro ce l’ha. «Di queste cose», dice un consigliere economico di palazzo Chigi, «ce ne occuperemo solo dopo, con i decreti attuativi...». La minoranza ha però già fiutato il pericolo e si scaglia contro la concessione di «deleghe in bianco». Se la battaglia in Parlamento sarà più dura del previsto, Renzi (che non vuole affidarsi ai voti offerti da Silvio Berlusconi) si troverà davanti a un bivio: procedere con un decreto, oppure porre la questione di fiducia, a dispetto delle rassicurazioni dei vicesegretari Guerini e Serracchiani. «E a quel punto», dice un renziano doc, «sarà interessante vedere se i ribelli guidati da Bersani & C. manderanno a casa il governo al prezzo di andare alle elezioni e di perdere la poltrona». In ogni caso, per addolcire la pillola e ammorbidire la minoranza, a palazzo Chigi lavorano a rastrellare i 2 miliardi necessari per i nuovi ammortizzatori sociali.
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