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Data: 22/09/2014
Testata giornalistica: Il Messaggero
Torna l’incubo scissione nel Pd: in direzione, 60 pronti allo strappo. Caos Pd, Renzi: «Con me cascate male»

ROMA La fronda diventerà (inizio di) scissione domani all’assemblea degli anti-renziani e poi, soprattutto, alla direzione del Pd il 29 settembre? Ognuno sta contando le proprie truppe - gli anti-Matteo in questo organismo sono una sessantina su 200 - e sta facendo le proprie riflessioni e le proprie letture. In zona Cuperlo, per esempio, va forte uno scritto di Antonio Gramsci del dicembre 1920: «Cos’è dunque l’unitarismo? E’ un malefizio occulto che determina discordia maggiore e più vasta di una scissione». Mentre Pippo Civati parla così: «Il potenziale scissionista è Renzi. E’ interessato a stare tutti insieme oppure vuole il suo Partito della Nazione, nel quale la sinistra come l’abbiamo intesa finora non ci starebbe?». Quando la parola scissione comincia a volteggiare in una comunità politica, il rischio che prima o poi arrivi sulla terra è probabile. Anche se molti in questo caso si affrettano a smosciare l’ipotesi, come fa il bersaniano D’Attorre: «Vogliamo soltanto riportare Renzi alle sue posizioni originali in tema di lavoro, prima della svolta filo-Sacconi, quando diceva che l’articolo 18 è un falso problema». Ma lo stesso Bersani, negando di voler spaccare la «ditta», aggiunge un «ma» che alcuni interpretano come una velata minaccia: «Ma la ditta è il luogo dove si elabora e si propone». E se il Rottamatore vuole rottamare questo metodo e andare dritto sulla sua strada?
LA RUPTURE

Scissione o non scissione, scissione renziana o scissione anti-renziana o nessuna scissione (anche se la tentazione scissionista fu a suo tempo attribuita a D’Alema prima della sua riappacificazione a cui fatto seguito nuova rottura con Renzi dopo la vicenda Ue), di fatto sarà la palude parlamentare il luogo nel quale, come sostengono quelli della minoranza Pd il premier-segretario sarà costretto ad abbassare le penne o ad arrendersi. Ovvero, quando si voterà emendamento per emendamento il Jobs Act, se non sarà prima trovata una mediazione e un terreno unitario, i 110 parlamentari nemici della linea iper-riformista sul lavoro scateneranno in Senato e alla Camera l’inferno. Comprensivo delle incursioni filo-governative di Forza Italia che faranno infuriare il popolo democrat, aggiungeranno tensione a tensione, infiammeranno un clima che nel Pd è infuocato, al netto di chi cerca adesso di sminare il terreno. I renziani hanno fatto il conto: 40 senatori contrari al governo. Ma dieci li reputano recuperabili. Quindi: 30 senatori e 80 deputati. Frondisti o anche potenziali scissionisti? Intanto, dopo la riunione di martedì mattina tra Fassina, Civati, Cuperlo, D’Attorre, Bindi, il grosso della truppa si riunirà in assemblea in serata. Per mostrare al premier-segretario tutta la propria forza di fuoco. Che per esempio, in commissione Lavoro della Camera, è sintetizzabile così: su 46 componenti, undici - a cominciare dal presidente Cesare Damiano - sono ex Cgil. E per lo più donne, e assai combat.
«Scissione non ci sarà mai», assicura il senatore bersaniano Gotor. Ma si sa quanto soffre il Pd ad adeguarsi alla regola del voto a maggioranza e quanto la scissionite sia malattia endemica della sinistra (ancora il Gramsci del 1920 sull’«Ordine nuovo»: «Spesso gli unitari per forza sono quelli che spaccano davvero i partiti») e quasi non varrebbe la pena proporre questa tabellina, che potrebbe essere assai più lunga e dettagliata: 1921, scissione nel Psi e nasce il Pci; 1947, scissione di Palazzo Barberini, Saragat esce dal Psi; 1948, scissione nel sindacato e dalla Cgil escono prima i cattolici, poi i repubblicani e i socialdemocratici; 1964, Dal Psi nasce il Psiup; 1969, nasce il Psdi; 1991, dal Pci al Pds e a Rifondazione comunista; 1995, da Rifondazione ai Comunisti unitari. E si potrebbe continuare ancora nell’elenco, naturalmente. Fino alla recentissima scissione di Sel, nata da una scissione di Rifondazione, con la fuoriuscita del gruppo di Gennaro Migliore. E proprio dalla sinistra vendoliana, e dall’area verde-antagonista un po’ Fiom un po’ altromondista, si soffia sul fuoco della scissione nel vagheggiamento di un’altra sinistra possibile dopo il big bang dei democrat, se mai ci sarà. E ci sono anche politologi e osservatori riformisti e liberali, come Corrado Ocone che dall’esterno ragionano così: «Un’eventuale scissione nel Pd sarebbe un fattore di chiarificazione e di progresso per la politica italiana». Resta il fatto che, per ora, scissione è solo una parola. «Ma Renzi», avverte Cesare Damiano, «è un tipo non portato per le mediazioni». E aggiunge Civati, il quale è convinto che siano più scissionisti i renziani che gli altri renziani: «Se Matteo continua così, sarà difficile stargli dietro».

Caos Pd, Renzi: «Con me cascate male»

ROMA Il Jobs act resta il pomo della discordia tra Matteo Renzi e la minoranza del Pd. E un’intervista al Tg2 del premier aggiunge legna al fuoco delle polemiche: «Nel mio partito c’è chi pensa che, dopo il 40,8% alle europee, si possa continuare con un ”facite ammuina“ per cui non si cambia niente e Renzi fa la foglia di fico: sono cascati male - avverte il leader dem - ho preso questi voti per cambiare l’Italia davvero». «L’Italia deve cambiare - è il messaggio da cui il premier intende farsi precedere nel viaggio che inizia stasera negli Usa -: sono anni che continuiamo a cambiare il governo ma non le cose. E così come riformando la Costituzione non stiamo attentando alla democrazia, con la riforma del Jobs act vogliamo rendere più semplice il lavoro. Nessuno - conclude Renzi - vuole togliere diritti ma darli a chi non li ha mai avuti. Servono regole più semplici per gli imprenditori e in grado di garantire chi perde il posto di lavoro».
La secca uscita del segretario innesca una crescita della tensione nel partito, che si manifesta con la levata di scudi di buona parte degli esponenti dell’opposizione interna. «Basta con le provocazioni e gli ultimatum», dice Gianni Cuperlo intimando di «finirla con la strumentale rappresentazione di un Pd diviso tra chi vuole innovare ed estendere i diritti a chi non ne ha e i conservatori che, con lo sguardo rivolto al passato, vogliono invece tutelare chi è già protetto e conservare solo diritti acquisiti». Ed è proprio l’etichetta di ”conservatore“ che non sembra andar giù a Pier Luigi Bersani che, intervistato dal Tg1, risponde per le rime: «Con la mia storia, conservatore no. Non posso essere accusato di esserlo. Vecchia guardia posso accettarlo - osserva l’ex segretario del Pd - ma più vecchia guardia di Berlusconi e Verdini chi c’è? Vedo che loro - aggiunge maliziosamente - sono trattati con educazione e rispetto. Spero che prima poi capiti anche a me...». Quanto al braccio di ferro sulla legge delega per il lavoro, Bersani, in accordo con Cuperlo, si dice d’accordo su un contratto a tutele crescenti per il tempo indeterminato ma un punto è irrinunciabile per i due esponenti della minoranza dem, quello dell’istituto della reintegra. Per l’ex segretario, le scelte dovranno, comunque, essere fatte in Direzione dove «non ci si potrà trovare di fronte a un semplice prendere o lasciare». Alle proteste di Bersani e Cuperlo si aggiunge Vannino Chiti: «Mi auguro che nel Pd si passi dagli slogan e dalle minacce di scomunica ad un confronto serio, a partire dalla riforma della legislazione sul lavoro. Su questo è in gioco il futuro del Pd come grande forza di una sinistra plurale».
DISSENSO DELLA MINORANZA
Netto il dissenso sulla linea della maggioranza sull’articolo 18 - e soprattutto da quella espressa dal leader Ncd Angelino Alfano - che manifesta Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, come anche Pippo Civati, che in una lettera aperta agli elettori del Pd avanza «la pretesa che le posizioni sui temi del lavoro siano esaminate, confrontate, condivise infine. Fino alla consultazione degli iscritti attraverso un referendum. Evitando, nel frattempo, di dire cose troppo strumentali, molto sbagliate e spesso offensive».
Posizioni, dunque, molto divaricate tra i Dem, per cui c’è chi mette le mani avanti per non trovarsi di fronte a sorprese al momento del voto alle Camere. Così fa un gruppetto di parlamentari renziani che in loro documento affermano che «la libertà di voto in Parlamento sul lavoro, ventilata anche da Bersani, sarebbe un attacco al partito. In direzione si discute, ci si confronta anche aspramente, ma una volta indicata una strada, tutto il partito ha il dovere di seguirla. Fare il contrario significherebbe mettere in discussione i fondamenti delle regole democratiche del Pd».

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