«Sono un insegnante della scuola dell’obbligo. Guadagno 1600 euro al mese. Ho sentito le retribuzioni dei commessi della Camera: e che la Cgil considera irricevibili le richieste del governo di porvi un tetto. Domani andrò a riconsegnare la tessera del sindacato». Fine della citazione. Ecco, in questo esempio, tratto dal vero, sta la contraddizione principale del sindacato: protettore dei diritti di chi è più garantito, incapace di tutelare chi lo è meno. Difensore di chi in qualche modo è comunque ‘dentro’ il sistema delle garanzie, lontano anni luce da chi ne è fuori: i giovani, le partite Iva, i contratti atipici, i lavori creativi e autonomi, i precari dei McJobs. Un sistema di garanzie che esclude professioni una volta dette liberali, le cooperative di servizi, i lavoratori a progetto – il mondo di oggi e di domani, insomma. Non a caso il maggior numero di iscritti il sindacato, la Cgil in particolare, li ha tra i pensionati. Senza nulla togliere alle necessità di tutela e di rappresentanza dei pensionati e del pubblico impiego, non è da questi mondi e da questi ambienti che ci possiamo aspettare l’innovazione, la modernizzazione, il cambiamento, le riforme. Non a caso il sindacato è diventato lo specialista dei no: perché vive delle garanzie del presente, non delle proiezioni sul futuro e sulle prossime generazioni. Per questo negli anni passati è stato tra gli attori che con maggiore responsabilità hanno prodotto, con la complicità della politica, l’esorbitante aumento della spesa pubblica e la deriva fuori controllo di un inefficiente lavoro pubblico che tutti noi oggi paghiamo. E poi è diventato il principale ostacolo a qualsiasi riforma... E non solo le riforme al ribasso, le riduzioni di tutele, che si capirebbe: ma tutte quelle che mettono in discussione lo status quo, le inerzie, i diritti acquisiti (di pochi). Col risultato che il compito che meno il sindacato sa fare è proprio quello della rappresentanza degli interessi generali, che pure la tradizione confederale rivendica come propria. Il sindacato è diventato un grande soggetto conservatore. Che, di per sé, non è una parolaccia: conservare i diritti, per esempio, è cosa buona e giusta. Ma ha finito, anche inconsapevolmente, per farlo a spese di altri, finendo per essere assimilato, agli occhi della pubblica opinione, alle peggiori corporazioni. In questo quadro, la polemica sull’articolo 18 – spesso ideologica da ambo le parti – diventa un dettaglio. Chi scrive non può essere sospettato di ostilità preconcetta nei confronti del sindacato. Quello di operatore sindacale è stato il mio primo lavoro a tempo pieno, cui ho dato il meglio delle mie energie giovanili e del mio impegno. Lì ho imparato che il sindacato è una grande scuola di democrazia e una straordinaria prassi di solidarietà. Ma lì ne ho conosciuto anche le storture e i limiti: l’incapacità di pensare oltre i propri recinti; l’incomprensione della necessità di valorizzare il merito, la qualità; l’eccesso di ideologismo; la difesa di comportamenti indifendibili; la burocratizzazione; l’intreccio profondo delle carriere sindacali con quelle politiche, che finiva per importare nel primo le storture della seconda (e che ha avuto il suo apice quando due sindacalisti – Marini e Bertinotti – hanno avuto in mano la seconda e la terza carica dello stato: un simbolo di decadenza e di debolezza, non di forza). Il sindacato provi a riflettere sul perché il suo stesso nome sia diventato un aggettivo percepito come negativo (“avere una mentalità sindacale”, “parlare in sindacalese”, ecc.). E perché sia così inviso alla pubblica opinione: in particolare proprio quella che dice di voler rappresentare – i più deboli e meno garantiti nella scala sociale. E forse potrà cominciare a capire perché, da troppi anni – decenni, ormai – non esercita più quella funzione che gli è propria, che a livello micro (aziendale) e locale spesso svolge ancora (tutelando i più deboli, con sacrifici personali di chi si iscrive e correndo anche dei rischi per chi ci lavora) mentre invece, in termini di rappresentanza generale, ciò non accade più: ed è una perdita per tutti.