ROMA Come nel più classico degli scenari a sinistra, che cosa c’è dopo l’annuncio di un’opposizione a un provvedimento? La piazza, ovviamente. Come si diceva ai tempi del Pci, «faremo opposizione in Parlamento e nel Paese». Ed eccoli, dunque: per oggi alla Camera è prevista una conferenza stampa con Landini, Rodotà, Fassina e Fratoianni di Sel per dire no al pareggio di bilancio in Costituzione. «Un modo per saldare il fronte del lavoro al fronte istituzionale», spiega Nichi Vendola materializzatosi in un Montecitorio del lunedì deserto per annunciare che Sel è ormai sparata ventre a terra contro Renzi e il suo Job act.
«E’ un passaggio epocale, la sinistra si è sempre caratterizzata sulla dignità del lavoro, allora tanto vale dire che ha avuto ragione Berlusconi in questi 20 anni, è più giusto che torni lui, altro che dare la colpa alla povera Cgil», incalza il governatore pugliese in scadenza. Landini, Rodotà, Sel e la fronda del Pd, tutti insieme per dire no al Renzi dell’articolo 18 e al Renzi che modifica la Costituzione.
IL CASO SCALA MOBILE
Ma è solo il primo passo, l’antipasto. Il clou movimentista è fissato per il 4 di ottobre, quando sempre Sel ha indetto una manifestazione a piazza SS. Apostoli per dire no al Job renziano. Lo slogan è già coniato: «Fate lavoro, non fate la crisi». Sul palco la stessa più o meno compagnia di giro: Landini, Fassina, Civati, Cgil, con Fratoianni a coordinare. Sullo sfondo, e un po’ più in là, sono già annunciate altre manifestazioni questa volta sindacali, con la Cgil che torna a sbandierare mobilitazioni solitarie, «in piazza anche senza gli altri», non rendendosi conto di fare né più e né meno il gioco di Renzi che alza più la posta più miete consensi a destra e a manca, e di ripercorrere la stessa strada che portò l’allora Pci a sbattere sul tema della scala mobile.
NO MEDIAZIONI
Che il gioco renziano sia quello di non cercare mediazioni, di andare dritti come treni e di alzare quindi la posta, lo dimostrano alcune dichiarazioni di fedelissimi come Luca Lotti, che manda una specie di penultimatum: «Non può dettare la linea chi ha perso le primarie», né è accettabile che si parta lancia in resta «prima ancora che si svolga la discussione nei luoghi preposti, come è la direzione», come a dire, venite pure così ci contiamo. Duro anche Paolo Gentiloni, solitamente aperto alle mediazioni ma questa volta attestato sull’intransigenza: «E’ inconcepibile tacciare Renzi di essere come Thatcher o Berlusconi, e poi invocare la libertà di coscienza. Se il tuo partito è guidato da un piccolo Berlusconi, la libertà di coscienza è un po’ poco».
Tutte discussioni, polemiche e avvertimenti in vista dei passaggi in cui i nodi verranno al pettine. Prima, alla direzione del Pd; poi, più importante ancora, ai gruppi parlamentari, quando si tratterà di votare (o no) il provvedimento. E qui le cose cominciano a sembrare più chiare. La sinistra dem si riunisce oggi e cercherà di ritrovare una unità interna, ma in vista della direzione già alcune cose non tornano, le minoranze perdono pezzi, i distinguo fioccano.
Mentre dal fronte renziano non si registra alcuna perdita, c’è già chi scommette che in direzione finirà 80 a 20 se non 85 a 15, laddove le minoranze di Civati (13 per cento) e della sinistra ex cuperliana (18 per cento, guarda caso) non riusciranno a mantenere queste percentuali. Questo perché alcuni pezzi ora critici risulterebbero di fatto in maggioranza, come ad esempio Cesare Damiano, che è di Areadem nonché fassiniano di ferro.
GENERAZIONI A CONFRONTO
Per non parlare dei quarantenni e trentenni bersanian dalemiani, affrancatisi dai Bersani e D’Alema, entrati neanche l’altro giorno in segreteria, e che tramite il capogruppo Roberto Speranza stanno lavorando a un’intesa, e soprattutto a convincere i più riottosi a non spingersi oltre il dovuto. Alla fine, sul no secco potrebbe attestarsi il solo Civati e la sua quindicina di seguaci. Proprio quel Civati cui si deve la suggestione di ricorrere al referendum interno sul 18 («facciamo pronunciare gli iscritti»), al quale molto probabilmente verrà risposto come fecero Migliavacca e Stumpo, Bersani regnante, alla sinistra di allora che voleva un referendum sull’acqua: «Sì, è vero, lo statuto lo prevede, ma manca il regolamento attuativo».