ROMA Determinatissimo, perché «o si cambia o l’Italia muore», Matteo Renzi, alla vigilia della direzione, chiamata a votare sul Job act, sfida il Pd. E a Che tempo che fa, ospite di Fabio Fazio, ripete: «Io non mollo». E agli attacchi dei cosiddetti «poteri forti», alle critiche della Cei, alle polemiche di leader storici del Pd come Massimo D’Alema, replica con un avvertimento che sa di minaccia del voto anticipato. «Potete sfiduciarmi in Parlamento, ma non pretendere di telecomandarmi». Avanti, quindi, con la riforma del mercato del lavoro, articolo 18 compreso «che - puntualizza - riguarda soltanto 2.323 casi».
Il presidente del Consiglio assicura che «non ci saranno nuove tasse» e che «gli 80 euro resteranno in busta paga». «Cose fatte - precisa - che sembrano non bastare a una sinistra che sa di museo delle cere. C’è ancora troppa gente che scommette sul fallimento. Ma noi ci siamo messi a spingere la macchina Italia, che ripartirà purché tutti si inventino soluzioni nuove, come quella della Fiom sul Tfr in busta paga ogni mese, che stiamo valutando».
LE MINORANZE
Le minoranze del partito, da Civati a Boccia, a Bersani, che lo invitano «a ragionare, a non porre aut aut», dovranno farsene una ragione. Il che non significa che non si possa arrivare a un compromesso, come annuncia il presidente del Pd, Matteo Orfini, secondo il quale «manca solo l’ultimo passo». Ma intanto Renzi alza il tiro. «Vogliono mandarmi a casa? Si accomodino, mi sfiducino in Parlamento. Possono farmi cadere, non telecomandarmi. E’ logico che vogliano farmi fuori - argomenta - perché le logiche sono cambiate - provoca - ma penso che più che di poteri forti si tratti di pensieri deboli».
LE REGOLE
«Il problema è semplificare le regole - spiega - noi non cancelliamo l’articolo 18, mettiamo un miliardo e mezzo sugli ammortizzatori sociali e superiamo Cococo e Cocopro che non hanno diritti - assicura - la scelta se licenziare o no non può restare in mano ai giudici. E’ lo Stato che si deve far carico dei lavoratori che perdono il posto. Il problema è offrire tutele vere a tutti, non antiche tutele ideologiche», insiste. Quindi, sferra un attacco a Cgil, Cisl e Uil, che oggi dovrebbero decidere sullo sciopero generale che la Camusso già minaccia: «Il sindacato è l’unica azienda sopra i 15 dipendenti senza articolo 18», accusa.
E a Massimo D’Alema risponde che «il problema degli italiani non è l’articolo 18, ma le garanzie per tutti. E’ ai 22 milioni di lavoratori che devo rispondere, non a D’Alema e ai vecchi soloni della sinistra, che per anni ci hanno spiegato cosa è di destra e cosa di sinistra».
IL DOCUMENTO
Ma le minoranze del Pd, da Boccia, a Fassina, a Civati, fino ai cuperliani si dicono pronti a presentare un documento in direzione pd, con il quale si chiede di allineare la discussione sulla legge di stabilità a quella sulla riforma del lavoro. Sarà la direzione, sostengono, a decidere se questo testo debba essere messo ai voti. Resta «il problema politico», che anche Renzi ha ipotizzato. Ossia, se sia meglio ascoltare le ragioni di una parte del Pd o i diktat del leader del Ncd, Alfano, che pretende di modificare le regole sul mercato del lavoro ricorrendo a un decreto legge, o, peggio, le sirene di Forza Italia, pronta a sostenere il job act.
A Bersani, che oggi compie gli anni e che, sinistramente, gli suggerisce, evocando il suo tweet a Enrico Letta, «di stare sereno perché non si arriverà alla scissione», manda a dire «che la ditta è sempre la ditta, anche se non la dirige lui». E a Berlusconi, che sempre oggi festeggia il suo compleanno, chiede di «fare presto le riforme e di non girarci intorno perché non può essere che ogni giorno si alza Brunetta e ne dice una».