ROMA Matteo Renzi tira dritto sulla riforma del lavoro e sull’abolizione dell’articolo 18 e la direzione del Pd di oggi rischia di chiudersi con una dolorosa conta interna con la minoranza. Mentre si cerca di trovare un accordo che ancora non c’è e Matteo Orfini, presidente del Pd, è convinto che «ci siano tutte le condizioni per farlo perché siamo d’accordo al 90%», il premier prima in un’intervista a Repubblica e poi in tv da Fabio Fazio fissa i suoi paletti. E avverte nemici interni e esterni: «Io non mollo e la mediazione non è con la minoranza del Pd ma con i lavoratori». «Non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano a un giudice, deve essere in mano all’imprenditore che non è cattivo, ma deve poter decidere se lasciare a casa un dipendente. L’importante è che lo Stato non lasci a casa nessuno», dice sollecitato da Fazio che gli chiede perché se l’articolo 18 crea lavoratori di serie A e B non lo estende a tutti. «Oggi - dice anticipando la sua relazione – annunciamo che cancelliamo i co.co.co e i co.co.pro e quelle forme di collaborazione che hanno fatto del precariato la forma di lavoro prevalente». Il sindacato? «Ci dà lezioni ma è l’unica realtà che ha più di 15 dipendenti e non ha l’articolo 18», dice ripetendo che l’obiettivo è quello di dare tutele a chi non ce l’ha e che l’articolo 18 è un totem che riguarda poche persone. In ogni caso il jobs act non è solo la cancellazione dell’articolo 18. «Io non sono massone, sono un boy scout, la verità è che non omaggio certi poteri e questa è la reazione», dice il premier che negli ultimi giorni è stato molto criticato dal Corriere, dall’ormai ex amico Diego Della Valle, da Scalfari e ha dovuto fare i conti con la reazione dei sindacati e della sinistra dem sulla riforma del lavoro. «Preferisco pensare a delle coincidenze», dice e lo stesso ripete parlando dell’avviso di garanzia che ha ricevuto il padre. Lui, racconta, «mi ha insegnato il rispetto delle istituzioni». Della magistratura però non gli è piaciuto che il Csm abbia parlato di attacco all’indipendenza delle toghe per il tetto di 240mila euro agli stipendi. Quanto alla legge di stabilità sarà di circa 20 miliardi, un miliardo e mezzo per gli ammortizzatori sociali e non ci saranno nuove tasse. Renzi non eslude invece l’ipotesi del Tfr in busta paga.to. Il tema centrale è il lavoro. «Va cambiato tutto lo Statuto dei lavoratori, è stato pensato 44 anni fa, è come se uno cercasse di mettere il rullino in una macchina digitale: sono due mondi che non dialogano e nel merito l’articolo 18 non difende tutti, anzi in fin dei conti non difende quasi nessuno: nel 2013 i reintegrati sono stati meno di 3.000» spiega Renzi. «Il reintegro spaventa gli imprenditori e mette in mano ai giudici la vita delle aziende: va tenuto solo nei casi di discriminazione, per gli altri indennizzo e presa in carico da parte dello Stato». Una posizione che non piace affatto alla minoranza e alla «vecchia guardia». Che da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani prende le distanze dalla riforma del segretario-premier ma smentisce nettamente quanto ipotizzato da Pippo Civati su una possibile scissione. «La scissione non esiste è da escludere, però bisogna rispettare le opinioni, non si può dire prendere o lasciare. Renzi stia sereno, stia tranquiillo», consiglia Pier Luigi Bersani». Ancora più duro Massimo D’Alema. «L’unica vecchia guardia con cui Renzi interloquisce è quella rappresentata da Berlusconi e Verdini, al Pd vengono poi imposte con il centralismo democratico scelte maturate in quegli incontri privati». Quanto alla riforma del lavoro, D’Alema dice che è possibile trovare un accordo ma avanza il sospetto che «che si cerchi uno scontro con il sindacato e una rottura con una parte del Pd per lanciare un messaggio politico all’Europa e risultare affidabile a quelle forze conservatrici che restano saldamente dominanti». Le posizioni restano distanti e oggi in direzione è possibile che si arrivi alla conta e alla prima spaccatura dell’era Renzi.