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Data: 30/09/2014
Testata giornalistica: Il Centro
Renzi “piega” la minoranza del Pd. La direzione approva il documento con 130 sì, 20 no e 11 astensioni. Il premier: «Ma in Parlamento votiamo uniti»

ROMA Sfida i sindacati dicendosi disposto ad incontrarli a Palazzo Chigi per parlare non di articolo 18 ma di salario minimo, rappresentanza sindacale e contrattazione di secondo livello. Concede una piccola apertura alla minoranza interna spiegando che l’articolo 18 potrà essere mantenuto non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli disciplinari. Un’apertura che non convince la minoranza. Ma, alla fine, Renzi incassa il via libera del partito e la sua relazione viene approvata con 130 sì, 20 no e 11 astenuti. E il premier-segretario tira dritto: «Mi piace pensare che in Parlamento si voti tutti allo stesso modo». Con un discorso che va avanti per 44 minuti, Matteo Renzi tenta la via della mediazione ma lo fa spiegando alla direzione del partito che l’impianto del jobs act non si tocca. In sala ci sono i rappresentanti di tutte le anime del Pd che si presentano all’appuntamento senza aver raggiunto un accordo e minacciando di astenersi sulla votazione finale. La tensione è alle stelle ma Renzi non si lascia intimidire e tira dritto. «Le mediazioni vanno bene, i compromessi vanno bene, ma non a tutti i costi» spiega il segretario per il quale riformare il diritto del lavoro è «sacrosanto». «A chi mi dice che eliminando l’articolo 18 togliamo un diritto costituzionale, rispondo che il diritto costituzionale non sta nell’articolo 18, ma nell’avere almeno un lavoro». Tolto l’abito da presidente del Consiglio e indossato quello da segretario, Renzi prova a convincere anche i più riottosi. E per riuscirci, lancia la sua proposta: «Io credo che l’attuale reintegro vada superato, dandogli una giustificazione da sinistra, lasciandolo per il discriminatorio e per il disciplinare». Il premier si dice disposto a discutere di «cosa significhi» discriminatorio e disciplinare ma poi aggiunge secco: «Se vogliamo dare tutela ai lavoratori, non è difendendo una battaglia che non ha più ragione di essere che ci riusciamo, ma costruendo una rete più estesa di ammortizzatori sociali». E, nell’attesa, il segretario torna a ripetere che il lavoro in Italia non è un diritto ma un dovere: «L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma in realtà è affondata sulla rendita di posizione. Il lavoro si crea innovando, non difendendo le regole di 44 anni fa. Dobbiamo avere il coraggio di andare all’attacco, di cambiare, sennò ci affidiamo per sempre al predominio della tecnocrazia. Bisogna avviare una riforma dello Statuto dei lavoratori che estenda a tutti il welfare ed elimini contratti come i co.co.pro». Renzi ripete che non si farà bloccare dai poteri forti e, con un evidente riferimento al duro editoriale di De Bortoli sul Corriere della Sera, punta il dito contro i poteri «aristocratici». Quanto alle prospettive per l’immediato futuro, Renzi conferma che il governo sta lavorando affinché il Tfr possa essere inserito dal primo gennaio 2015 nelle buste paga dei lavoratori e annuncia che nella legge di Stabilità ci saranno «almeno 2 miliardi di euro di riduzione del costo del lavoro». Renzi chiede alla direzione di votare «con chiarezza» un documento «che segni il cammino del Pd sui temi del lavoro e ci consenta di superare alcuni tabù che ci hanno caratterizzato in questi anni». Ma la proposta non convince. Gianni Cuperlo gli ricorda che escludere il reintegro è «incostituzionale» e gli chiede di trovare una sintesi «condivisa» mentre Massimo D’Alema non risparmia il sarcasmo e, dopo aver ricordato che «l’articolo 18 è un tabù di 44 anni che non esiste più da due anni», va giù pesante e ricorda a Renzi che molte delle cose da lui dette «sono senza fondamento». «Dici che è la prima volta che si interviene sul costo del lavoro. Ma il governo Prodi investì 7 miliardi nella riduzione del cuneo fiscale. Si parla di un tabù, ma parliamo di riformare una norma modificata due anni fa. Lo ricordo perché il dibattito politico deve mantenere un ancoraggio alla realtà...». Il più intransigente è Pier Luigi Bersani, che non ci sta ad obbedire e basta. «Noi sull’orlo del baratro non ci andiamo per l’articolo 18. Ci andiamo per il metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterla dire senza che gli venga tolta la dignità. Ai neofiti della ditta dico che non funziona così. Io voglio poter discutere prima che ci sia un prendere o lasciare. Secondo me in questa delega lavoro c’è un deficit di capacità riformatrice». Pollice verso anche da Pippo Civati. «L’altra sera, in tv, ho visto un premier che diceva cose di destra...». Il malcontento non si placa.

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