ROMA Il Tfr in busta paga «per consentire un ulteriore scatto del potere d’acquisto». Prende corpo il progetto anticipato da Matteo Renzi due giorni fa in Tv da Fabio Fazio. Il premier ci è tornato sopra ieri durante la direzione del Pd. Un breve accenno. Ma sufficiente per confermare che il piano c’è e che scatterà a patto che decolli «un protocollo tra Abi, Confindustria e governo». Un’intesa indispensabile perchè Palazzo Chigi è consapevole che l’operazione farebbe mancare una montagna di miliardi oggi utilizzati dalle imprese per le proprie esigenze di cassa. Soldi che dovrebbero essere coperti escogitando una qualche soluzione finanziaria. La strategia, comunque, è chiara: garantire liquidità agli italiani attraverso una sorta di bonus da 80 euro 2.0. Ecco in cosa potrebbe tradursi per qualche milione di italiani(per ora solo i dipendenti di aziende private) il Tfr scongelato che confluisce nelle buste paga. Se andrà a finire come Matteo Renzi progetta, i calcoli sono presto fatti. Dalle dichiarazioni di 16 milioni di contribuenti dipendenti risulta che la retribuzione lorda media è di 19.750 euro. Che al netto diventano 14.870. Questi lavoratori, che già godono del bonus fiscale, a fine mese portano a casa poco più di 1.200 euro. Mentre l'azienda, o l'Inps, trattengono 104 euro di trattamento di fine rapporto: vale a dire il 7,41% del salario lordo. Nel caso in cui la riforma immaginata da Palazzo Chigi diventasse realtà, quei soldi irrobustirebbero lo stipendio di altri 75 euro euro. E cioè quel che resta dopo aver imposto un'aliquota Irpef del 26%. Ovviamente, le cose andrebbero in maniera differente se si dedidesse di inserire solo il 50% del Tfr in busta paga lasciando il resto nelle casse del sostituto d'imposta o della previdenza statale. In quel caso, lo stipendio netto medio degli italiani subirebbe un'accelerazione limitata a 40 euro mensili. Un mini bonus. E' chiaro che, al crescere del reddito, il beneficio sale. Così, con una retribuzione lorda di 31 mila euro (1.700 euro netti la mese) il Tfr per intero sul cedolino porta a guadagnare un centinaio di euro in più.
LE INCOGNITE
Ma la vera domanda è: la riforma sarebbe conveniente per i lavoratori? Scherzando ci si potrebbe chiedere se è meglio un uovo oggi o una gallina domani. Infatti è evidente che nell'immediato la disponibilità del Tfr fa crescere il reddito (si parla di una iniezione di 21,6 miliardi per le tasche dei lavoratori) ma bisogna ricordare che la logica dell'accantonamento serve a garantire una protezione futura quando il rapporto di lavoro finisce. Inoltre, senza correttivi all'attuale struttura, il rischio è quello di prendere dei soldi oggi rinunciando a maggiori benefici domani. E questo perchè il denaro che il lavoratore lascia nelle casse dell'azienda (o dell'Inps se si ha un contratto con una struttura con più di 50 dipendenti) subisce una crescita annuale prodotta da un interesse medio dell'1,5% al quale si aggiunge la rivalutazione del 75% del tasso d'inflazione. In pratica nel giro di 10 anni il Tfr può rivalutarsi del 15-20% polverizzando il vantaggio di un incasso immediato. Come mostra, ad esempio, la busta paga di un lavoratore assunto nel 2003 (retribuzione lorda: 4.100 euro) che nel corso di 11 anni ha maturato 37.432 euro di accantonamenti. Se in questi anni avesse incassato il Tfr ogni mese ci avrebbe rimesso 3 mila euro. E' chiaro che questi ragionamenti devono tenere conto di troppe variabili al momento sconosciute. E infatti la reazione del mondo imprenditoriale è fredda. Alle forte preoccupazione che filtra da Confindustria si è aggiunto ieri il secco no di Rete Imprese Italia. «In questa fase di perduranti difficoltà per il sistema produttivo - ha osservato il presidente Giorgio Meletti - è impensabile che le Piccole e medie imprese possano sostenere ulteriori sforzi finanziari come quello di anticipare mensilmente parte del Tfr ai dipendenti».