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Data: 02/10/2014
Testata giornalistica: Il Messaggero
Jobs act - Matteo disinnesca la mina: il “disciplinare” non conta

ROMA Articolo 18 anche per i licenziamenti disciplinari? E’ la formulazione sulla quale sono saltate su le minoranze del Pd, giudicandola una cosa molto positiva, così come gli imprenditori, che invece vi hanno visto molto di negativo. Come ha spiegato Guglielmo Epifani nell’infuocata direzione dem, «avete capito bene di che stiamo parlando? Significa che i tre licenziati a Pomigliano da Marchionne sarebbero subito reintegrati». Su quella paroletta, «disciplinare», si sta riaprendo, o si è già riaperto, un fronte di fuoco dentro il Pd.
L’ONERE DELLA PROVA

Ce n’è quanto basta perché Matteo Renzi intervenga a mettere una toppa, o a spiegare bene di che cosa si stratta, quali sono gli intendimenti del governo. A chi chiedeva lumi, il premier ha spiegato senza giri di parole: «Il disciplinare va provato dal lavoratore. Ma nessun imprenditore normale sceglierà il disciplinare, ricorrerà piuttosto ai motivi economici».
Tutto chiaro, tutto liscio? Fino a un certo punto. La tesa riunione di direzione del Pd ha lasciato parecchi strascichi, politici, correntizi, parlamentari, e finanche personali. La conclusione tutto sommato trionfale per Renzi (solo in 6-7 hanno votato contro con D’Alema e Bersani, gli altri erano di Civati) non significa che adesso tutto procede in discesa. C’è il passaggio parlamentare lì ad aspettare, e in vista dell’inizio delle votazioni al Senato è già in atto un vero e proprio braccio di ferro con il governo a base di: basta un ordine del giorno per recepire le conclusioni della direzione dem, o ci vuole un emendamento del governo? Il primo strumento è considerato troppo blando e non impegnativo dai 39 ”ribelli” (erano 40, ma c’è stata la prima defezione di una senatrice giovane turca), il secondo era stato ventilato, ma il governo per bocca dei ministri Poletti e Boschi ha detto che «si sta valutando, nulla è ancora deciso». Così come non è stato deciso di mettere la fiducia, «almeno per il momento» (parole degli stessi ministri), molto se non tutto dipenderà dall’evolversi della situazione.Le minoranze astensioniste, quei dirigenti e parlamentari che si sono dissociati dal duo D’Alema-Bersani alzando disco giallo, adesso vanno all’incasso. Spiega Nico Stumpo, coriaceo bersaniano che si è astenuto: «Io ero perché tutti della minoranza ci astenessimo per sottolineare i passi in avanti. Nel documento c’è scritto chiaro ”disciplinare”, e non è che ora si può far finta di niente. A questo punto, nel testo del governo ci deve essere quella paroletta, ”disciplinare”, con tutto quello che significa». Stando a Renzi, la paroletta ci sarà, ma il significato o meglio la pratica reale saranno tutt’altre, «nessun imprenditore normale vi ricorrerà».
Il problema è che nelle minoranze dem c’è ormai aria da resa dei conti. Al punto che la riunione interna «per un chiarimento» invece che per oggi è stata rinviata alla prossima settimana. «Dobbiamo decidere se facciamo opposizione per migliorare i testi o se per altri obiettivi che prescindono dal merito», spiegava Davide Zoggia, bersaniano che ha votato no ma non per rompere nel partito. E la presa di posizione di Bersani dovrebbe aver portato luce nella corrente: «Discuto, critico, polemizzo, ma nel voto finale sarò leale». Ecco perché Renzi può dire che «alla fine saranno solo 5-6 gli irriducibili», in pratica solo i civatiani di palazzo Madama. Ma anche per loro si porrà il fatidico quesito: voto contro e strappo o mi attengo alle deliberazioni della maggioranza?

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