ROMA «Nel voto finale sul jobs act certamente non mancherà la lealtà verso il partito e il governo. Non ho bisogno di farmi spiegare cosa è una ditta dai neofiti...». Nel giorno in cui la riforma del lavoro approda al Senato e la Conferenza dei capigruppo decide che le votazioni slitteranno dal 7 all’8 ottobre, Pier Luigi Bersani non rinuncia a punzecchiare Renzi («Se la prende con tutti e mai una volta con la destra») ma conferma che la temperatura nel Pd si è un po’ abbassata. A puntare i piedi, infatti, è soprattutto il Nuovo centrodestra, che è nettamente contrario all’ipotesi di un emendamento del governo che manterrebbe il reintegro non solo per ragioni discriminatorie ma anche disciplinari. «Sulla riforma del lavoro e sull’articolo 18 non arretriamo. Per tanti anni in Italia si è detto che sarebbe cambiato ma poi le mediazioni al ribasso hanno portato solo danni. Noi diciamo basta» avverte il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi (Ncd). E Renato Brunetta (Fi) è ancora più esplicito: «Se Renzi, per tenere in piedi il suo partito, fa marcia indietro noi non potremo fare altro che votare contro e denunciare questo imbroglio». La levata di scudi del centrodestra obbliga il governo ad un supplemento di “riflessione”. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, prende tempo: «Stiamo ancora ragionando su quello che c’è da fare». Ed anche il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, non si sbilancia: «Stiamo valutando in queste ore se presentare un emendamento o ritenere sufficiente il testo della delega e tradurre l’accordo politico nei decreti delegati». Parole che tranquillizzano Maurizio Sacconi («Non è detto che verrà presentato un emendamento perché la delega contiene criteri precisi...»), ma allarmano la minoranza del Pd, che ha presentato 7 emendamenti al jobs act. «Un semplice ordine del giorno è insufficiente. Già la legge delega è generica, così sarebbe troppo» avverte Federico Fornaro, senatore della minoranza Pd che ha firmato gli emendamenti. Al voto si arriverà non prima dell’8 ottobre e questo vuol dire che il governo non considera più prioritario presentarsi al vertice europeo sul lavoro a Milano (previsto per l’8 ottobre) con un primo sì di un ramo del Parlamento alla riforma del lavoro. Il sostanziale via libera di Bersani al jobs act viene comunque interpretato a largo del Nazareno come un segnale incoraggiante e il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, apprezza la novità: «L’apertura della minoranza interna sul jobs act mi sembra un’ottima notizia, in linea con la dignità politica di Bersani e con la tradizione del Pd». Nell’attesa di vedere come si concluderà la partita sul lavoro, per il governo si apre un altro fronte caldo. La possibilità di inserire una parte del Tfr nella busta paga dei lavoratori, annunciata da Renzi, non convince infatti i sindacati e molti esponenti politici. Si va da Bersani, che invita il governo «ad andarci molto cauto perché i soldi sono dei lavoratori», fino a Beppe Grillio: «Togliere il Tfr alle imprese vuol dire metterle in mutande e costringerle a rivolgersi al credito bancario per finanziarsi». Ma il no più deciso a una misura che secondo la Cgia di Mestre costerà alle piccole imprese tra i 3.000 e i 30.000 euro all’anno è quello dei sindacati. E, questa volta, non ci sono distinzioni. «Il Tfr è meno tassato dello stipendio. Non vogliamo che in questo modo i lavoratori paghino più tasse anche su quello» spiega il segretario generale aggiunto della Cisl, Annamaria Furlan. «Nessuno dica che si stanno aumentando i salari. Quelli sono soldi dei lavoratori e non un’elargizione del governo. Non c’è nessun nuovo bonus» taglia corto la leader della Cgil, Susanna Camusso.