LONDRA Dopo tante titubanze, dopo aver detto e ripetuto che lui con Angela Merkel «va d’accordo», Matteo Renzi rompe gli indugi. Va alla guerra proprio contro Berlino: «Sto con Hollande, sto con la Francia. Nessuno ha il diritto di trattare gli altri Paesi come si trattano gli studenti». Come scolaretti. Chiara l’allusione alle parole pronunciate il giorno prima dalla Cancelliera: «La Francia vuole sforare i parametri? Faccia invece i compiti a casa». Le carte del resto ormai sono sul tavolo, la legge di stabilità con il mancato pareggio di bilancio è pressoché scritta e la tanto invocata flessibilità è stata presa d’imperio. Non è più tempo per la diplomazia. Né da una parte, né dall’altra. Dunque, si cercano e si saldano alleanze in vista dello scontro di novembre, quando a Bruxelles si dovranno promuovere o bocciare i programmi economici dei singoli Paesi.
L’ASSALTO
Renzi nel suo affondo non nomina mai Frau Merkel. E va all’assalto di Berlino di fronte al portone di Downing street, dopo aver siglato un patto con il premier britannico. Come Renzi, anche David Cameron parla di «necessaria flessibilità», di «cambiamento», invoca un’Europa «leggera e attraente», libera dal dominio dei tecnocrati. E celebra la «calorosa relazione bilaterale con l’Italia». Certo, la Gran Bretagna non è nella moneta unica, non deve inginocchiarsi alle regole del Six pack e del Fiscal compact. Ma come dice Armando Varricchio, consigliere diplomatico di Renzi, «Cameron sarà molto ascoltato al Consiglio europeo di ottobre, perché parla anche a nome dell’alleato americano Obama che vuole una forte crescita per l’Europa e perché anche la Merkel intende assolutamente scongiurare il distacco del Regno Unito dalla Comunità europea», soprattutto adesso che è forte la minaccia di un referendum anti-europeo. In poche parole: «Cameron è un alleato importante». E in guerra gli alleati servono. Eccome. Tant’è che nel pomeriggio, alla Guildhall della City, davanti alla business community londinese, Renzi torna ad attaccare a testa bassa Bruxelles e le politiche del rigore con parole care a Cameron: «Ce la faremo se l’Europa sarà una comunità di destini e non un posto di insegnanti e studenti. Ce la faremo se l’Europa non sarà solo un posto di regole astratte, di tecnocrazia e burocrazia eccessiva. Senza una svolta economica, senza sviluppo, l’Europa rischia anni di stagnazione e deflazione».
LE DIFFERENZE
Renzi però sta bene attendo a sottolineare le differenze con la Francia. «Noi siamo in una situazione diversa, noi rispetteremo il limite del 3%» tra deficit e Pil. «E anche per questo ci sentiamo in diritto di dire che va rispettato un Paese libero e amico come la Francia. Nessuno può usare espressioni senza rispetto per i Paesi che decidono di non applicare i parametri». Renzi torna a Londra esattamente sei mesi dopo la visita del 2 aprile scorso. Sei mesi fa aveva promesso di varare le riforme strutturali per garantire competitività e sviluppo, utili perciò a strappare concessioni a Bruxelles. Adesso elenca quelle riforme con le solite slide (a pranzo con alcuni esponenti della City) e con un lungo discorso in inglese (questa volta scritto) sotto le volte gotiche della Guildhall. Parla della riforma della giustizia civile, della pubblica amministrazione, della scuola, della Costituzione, della legge elettorale a doppio turno «che dà certezze di stabilità», della lotta alla corruzione, della spending review. «Tutto già avviato, tutto da completare al massimo in sei mesi». Promette che il costo del lavoro nel 2015 «sarà tagliato di altri 2 miliardi». Dice: «L’Italia is back, è tornata. Ora da noi non solo è possibile investire, adesso siamo un’opportunità. Siamo un Paese di speranza e non di preoccupazione».
LA RIFORMA
Soprattutto Renzi, per dimostrare quanto stia diventando «attraente» il nostro Paese, batte sul tasto della riforma del lavoro. «Una vera rivoluzione, una riforma che completeremo in un mese ed è già molto apprezzata dagli investitori. Berlusconi dice che non la sosterrà? Ho visto che Wall Street sta già tremando...», ironizza. E va a testa bassa verso la «vecchia guardia del Pd»: «E’ impossibile investire nel futuro difendendo solo il passato, come credono alcuni politici del mio partito». Poi, rivolto agli investitori che affollano la Guildhall: «Stiamo cambiando un simbolo, un totem, stiamo cambiando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che è un limite a chi vuole investire. Alla fine con il Jobs act avremo solo 55 articoli, ora ce ne sono 2134. Lo dico ridendo, ma ci sarebbe da piangere».