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Pescara, 24/11/2024
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07/10/2014
Il Messaggero
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Lavoro, il governo chiede la fiducia. Renzi sfida i sindacati. Alta tensione nel Pd. Forza Italia: noi non la votiamo. Oggi il capo dell’esecutivo vede Cgil, Cisl e Uil: diano una mano. E avverte: ora guido io |
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ROMA Probabilissima la richiesta della fiducia del governo sul Jobs act. Il Consiglio dei ministri di ieri sera ha autorizzato la titolare dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, a «porre eventualmente» la questione di fiducia sul ddl delega sul lavoro. E così andrà a finire, anche se Renzi prima di chiederla formalmente farà svolgere i due incontri in programma stamattina con i sindacati e gli imprenditori. La fiducia è infatti materia di forti tensioni non solo con i sindacati, che con Susanna Camusso si sono detti ieri «pronti al confronto ma anche al conflitto» e con i quali il premier si accinge al braccio di ferro che si apre stamattina alle 8 nella Sala verde di palazzo Chigi, ma anche con la minoranza del Pd, che ha visto alcuni dei suoi esponenti più irriducibili, come Stefano Fassina e Pippo Civati, minacciare «conseguenze politiche» se il governo insisterà sulla fiducia.In ogni caso, la fiducia verrà posta su un maxiemendamento a cui il governo sta lavorando che dovrebbe recepire alcune delle modifiche al Jobs act contenute nel documento approvato dalla Direzione del Pd di una settimana fa, pur non diffondendosi in dettagli sull’art. 18 e il reintegro per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. La prospettiva non tranquillizza gli oppositori interni del Pd che intendono tenere alta la protesta contro alcuni aspetti del provvedimento, soprattutto quelli riguardanti le garanzie fornite dall’art.18. La battaglia annunciata da chi come Fassina non esita a richiamare l’attenzione del capo dello Stato sulle «molto gravi conseguenze politiche dell’azione del governo», non sembra però intimidire Matteo Renzi che ha avvertito: «Ora tocca a me guidare e nessuno pretenda di mettere blocchi perchè da venti anni siamo nella palude». Quanto alle riforme, l’ex sindaco di Firenze ha precisato: «Certo che le facciamo, non molliamo di un centimetro - ha detto il premier a ”Quinta colonna“ su Rete4 -. E’ chiaro che quando si fanno le riforme qualcuno si accontenta e qualcuno si scontenta un pò». INCONTRO INEDITO Quanto all’inedito - per il suo governo - incontro con Cgil, Cisl e Uil, Renzi annuncia che chiederà «se sono d’accordo che anche loro devono dare una mano. Se siamo arrivati a questo punto in Italia - aggiunge - la colpa è dei politici, ma c’è una responsabilità diffusa di tanta gente, anche dei sindacati». E sul nodo gordiano dell’art.18 che lo oppone sia ai sindacati che alla minoranza del suo partito, Renzi ribadisce: «E’ un totem ideologico, riguarda 2.500 persone e rischia anche di essere fonte di incertezza» dal punto di vista giuridico. D’altra parte, a favorire in qualche modo il non inasprimento del clima tra maggioranza e minoranza dem arriva la presa di distanza di Forza Italia dalla riforma del lavoro di marca renziana. Il consigliere politico di Berlusconi, Giovanni Toti, afferma infatti che il suo partito «non potrà votare la fiducia a un provvedimento che sembra un ennesimo compromesso al ribasso tra le componenti del Pd». A rincarare la dose è Renato Brunetta: «Renzi non ci prenda in giro: al vertice Ue sul lavoro non porterà nessuna riforma. Al massimo l’approvazione di una delega in una sola Camera. Così - sostiene il capogruppo azzurro a Montecitorio - non si va da nessuna parte». Diverso l’atteggiamento del Nuovo centrodestra, il cui leader Angelino Alfano annuncia l’appoggio deciso a una riforma «che abbiamo voluto per primi», venato solo dal dubbio che, magari attraverso il maxiemendamento, finisca col ridursi a «una cosa brodosa e inconcludente». Il ministro dell’Interno, infatti, tende ad escludere «emendamenti che impediscano di mandare in soffitta l’articolo 18». Il consenso di Alfano al premier è invece senza esitazioni su un altro controverso argomento, quello del Tfr in busta paga, sul quale il leader del Ncd conferma: «Un punto già chiarito è che si farebbe solo sulla base di una scelta volontaria del lavoratore».
Il premier: subito la riforma per dare battaglia in Europa Un maxiemendamento blindato così da portare a Milano il primo sì al Jobs Act. Un punto-chiave nel braccio di ferro in atto con i rigoristi nordeuropei ROMA Lo scalpo dell’articolo 18, tante volte invocato da Bruxelles e Berlino come segno dell’incapacità dell’Italia di cambiare, è nel sacco. Domani a Milano Matteo Renzi lo esibirà ai commissari Ue e a Ventisette capi di stato e di governo, Merkel in testa, convocati dalla presidenza italiana dell’Unione per discutere di come dare un futuro a 27 milioni di disoccupati. RESISTENZE Un successo in diretta, visto che l’approvazione della riforma del mercato del lavoro a palazzo Madama avverrà in contemporanea con l’avvio dei lavori della conferenza che lo stesso Renzi concluderà nel pomeriggio. La richiesta del voto di fiducia era scontata, viste le resistenze della minoranza interna del Pd. Polverizzata dal voto in direzione e supportata da un’esposizione mediatica forse superiore ad ogni percentuale di consenso, la sinistra del Pd ha tirato un sospiro di sollievo quando il consiglio dei ministri ha autorizzato la fiducia. Consapevoli del peso che in Europa viene data alla riforma, anche i dem più barricaderi sapevano di doversi arrendere e hanno tentato di spostare il fuoco della contesa su possibili correzioni. La disponibilità data anche ieri dal ministro Poletti a piccoli ritocchi si spiega con le stesse motivazioni che hanno spinto Renzi a riaprire la sala Verde alle parti sociali dopo aver definito i contorni della riforma. L’ordine del giorno dell’incontro di stamane con i sindacati e con gli imprenditori, non è infatti sull’articolo 18, quanto sulle azioni che Cgil, Cisl e Uil da un lato, e Confindustria dall’altro devono attuare - secondo palazzo Chigi - per accompagnare le riforme che dovrebbero rimettere l’Italia sul binario della crescita. «Datemi una mano», sarà la sintesi del doppio incontro. Una mano tesa e anche una richiesta di cambiare le logiche «inconcludenti» delle recenti riunioni ospitate nella sala verde. STRANIERI I compiti a casa per i primi riguarderanno temi come la rappresentanza sindacale, la contrattazione di secondo livello e il salario di disoccupazione. A Confindustria, definita a suo tempo da Renzi «una palude», è invece destinato il capitolo del Tfr, del credito, della riduzione del cuneo fiscale da destinare ad investimenti, degli ammortizzatori sociali e di come tornare a fare impresa ora che palazzo Chigi ha spalancato le porte agli stranieri. Il Rottamatore non si aspetta molto dagli incontri di oggi se non quello di mostrare la dinamicità della politica made in Renzi rispetto alla staticità di organizzazioni che si reggono su pensionati (i sindacati) e sui contributi delle aziende di Stato (Confindustria). Alla Conferenza di Milano sull’occupazione, Renzi porterà il primo e forse simbolicamente più importante tassello della sua strategia di riforme e, in costante gioco di sponda con il presidente francese Hollande, continuerà a picchiare duro sui temi della crescita. Anche se rifiuta il paragone con la Thatcher, reiterato anche ieri dalla Camusso, non c’è dubbio che nelle cancellerie europee l’accostamento risulta vincente. «Se Renzi è la Thatcher la Camusso è Scargill», spiegava ieri un funzionario della Commissione di Bruxelles giunto a Milano in attesa dell’arrivo di Barroso e Van Rompuy. Al rilevante ruolo che la Commissione Ue ha avuto in questi anni, Renzi intende sovrapporre quello della politica di governi che non accettano imposizioni e tantomeno che la burocrazia di Bruxelles si sostituisca alla sovranità degli stati. Il braccio di ferro con Berlino e i rigoristi del Nord Europa è destinato ad accentuarsi in vista del consiglio europeo di fine ottobre ma soprattutto di quello di dicembre nel quale sarà già operativa la nuova Commissione guidata da Juncker. Sulla promessa, fatta dall’ex premier lussemburghese, di 300 miliardi di investimenti in tre anni, sarà giocato lo scontro che inevitabilmente riguarderà non solo i parametri non rispettati da Italia e Francia, ma anche quelli sforati dalla Germania.
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