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Pescara, 24/11/2024
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09/10/2014
Il Messaggero
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Lavoro, in Senato passa la fiducia dopo la bagarre. La sinistra vota sì. M5S e Lega scatenati, poi primo ok al ddl: 165 voti a favore, 111 no e 2 astenuti. Tre dissidenti pd restano fuori dall’aula |
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ROMA Al Senato va in scena l’agonia dell’articolo 18. E succede di tutto: volano libri, fogli, monetine, il regolamento del Senato lanciato verso la presidenza. Un clima contundente che ha tenuto in Aula i senatori fino a notte tarda dopo la decisione del governo di porre la fiducia sulla delega per il Jobs act. Fiducia che passa nella notte: 165 sì, 111 no e 2 astenuti (il miglior risultato del governo in un voto di fiducia a Palazzo Madama escluso l’insediamento). RISSA CONTINUA
Qualche fermo-immagine: il ministro del Lavoro, Poletti contestato durante il suo intervento mentre dice che l’art. 18 «non è l’alfa e omega della nostra riflessione»; la Lega che insieme a Sel sale sulle barricate; il capogruppo 5Stelle Petrocelli avvinghiato allo scranno dopo essere stato espulso dal presidente Grasso al quale aveva consegnato polemicamente 30 centesimi; la senatrice grillina Blundo che tenta di raggiungere il ministro Boschi e viene fermata dai commessi. Sospensioni, tempi allungati, spintoni. Così che la prima chiama dei senatori slitta alle 23. Il risultato era scontato: anche la minoranza democrat alla fine infatti si è piegata e ha annunciato di votare sì alla riforma. Segue comunicato con 35 firme. «Alcune proposte del ddl sono state accolte nel maxiemendamento», rivendica, scarsamente entusiasta, la senatrice Guerra. «Voteremo la fiducia, non abbiamo mai voluto far cadere il governo ma solo migliorare la delega», spiegano i bersaniani. SPACCATURA
Ma i segni della spaccatura resteranno. Walter Tocci, uno dei 5 civatiani, non partecipa al voto ma annuncia che darà le dimissioni da senatore, «una scelta di coscienza, senza nessun disegno politico per il futuro», scrive sul suo blog. Critici e sul punto di rompere anche Casson e Ricchiuti, che non hanno preso parte al voto, mentre Fassina e il presidente della commissione Lavoro di Palazzo Madama, Damiano si dicono convinti che «la Camera cambierà il decreto»: a Montecitorio ci sarà battaglia. E il tanto evocato soccorso azzurro? Non s’è reso necessario. Romani, presidente dei senatori di Forza Italia spiega in Aula che avrebbe voluto più tempo «per approfondire un documento così complesso». Quando l’Aula boccia il rinvio del voto, a Milano va in onda quasi in dissolvenza l’altra partita: il vertice Ue sull’occupazione e la conferenza stampa con la Merkel, Renzi e Hollande. «L’opposizione ha fatto sceneggiate - accusa il premier - un segno di mancanza di serietà e di rispetto». E ancora: «La mia preoccupazione è la disoccupazione, non l’opposizione». Chi ha tessuto la tela con l’unico scopo di “portare a casa il risultato” è il capogruppo dem in Senato Zanda. A tarda sera, quando la seduta si trascina verso la fine e c’è tempo solo per le dichiarazioni di voto, ricorda che «i Paesi più attraenti» sono quelli «dove il lavoro è regolato da una legislazione più flessibile». Ma ormai l’Aula è troppo esausta e distratta. Nessuno applaude, nessuno fischia.
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