ROMA - Il giorno dopo l'approvazione del Jobs Act - e la notte di bagarre al Senato - nel Partito democratico si respira aria di resa dei conti. La minoranza del Pd ha votato in larga parte sì alla delega, ma non sono mancati i 'disobbedienti', che per il vicesegretario Lorenzo Guerini rappresentano "un problema da affrontare anche in direzione".
E se l'ex segretario Pier Luigi Bersani spera che non sia posta la fiducia anche alla Camera e che ci sia più tempo per esaminare la riforma del lavoro, Stefano Fassina annuncia che scenderà in piazza a fianco alla Cgil. Sindacato dal quale oggi arriva l'ennesimo affondo: "Il Jobs Act apre spazio ai soprusi". Mentre il presidente della Bce Mario Draghi ritiene che la riforma di Renzi "non si tradurrà in massicci licenziamenti" e aggiunge: "Le riforme del mercato del lavoro devono rendere più facile per le aziende assumere giovani ma non più facile licenziarli".
Segreteria alle 8. Inizia presto la mattina di Matteo Renzi e del vertice Pd. Il premier, nella veste di segretario del partito, riunisce la segreteria al Nazareno alle 8. E prima di entrare ringrazia i senatori che "hanno lavorato per il bene del Paese" e rincara la dose contro i 5 Stelle dopo le dure critiche pronunciate già nella tarda serata di ieri: "Sono sceneggiate che ormai hanno stancato anche i loro elettori, ma i senatori ieri hanno fatto un grandissimo passo in avanti. Certo, rimane l'amarezza per le immagini dei disordini in aula. Molto tristi per i cittadini che si domandano che senso ha".
Poi parole di distensione verso la minoranza del Pd che nella grande maggioranza ha dato il proprio placet al provvedimento. In particolare verso Walter Tocci, l'esponente dell'opposizione dem che vota, sì, e poi si dimette da senatore: "Farò di tutto perché Tocci, che è una persona che stimo molto, continui a fare il senatore. Ha espresso le proprie posizioni, ha scelto una linea politica ma ha accettato quello che il partito ha detto - ha aggiunto Renzi -, la sua intelligenza, la sua passione e la sua competenza sono necessarie a un partito che ha il 41% dei consensi. Proverò a dirgli che le sue dimissioni dal Senato sarebbero un errore". Qualche ora più tardi, su Twitter il cronoprogramma.
Tocci, tuttavia, interviene a stretto giro e, nonostante le parole del premier, conferma le dimissioni, legate al contrasto fra la responsabilità verso il partito e la coerenza con le proprie idee che gli fanno ritenere la delega "un provvedimento vecchio. Le dimissioni sono un atto nobile, non si gioca" con questo. Una volta "date, sarà l'aula a decidere se accettarle o respingerle". Poi aggiunge: "Le parole di Renzi mi hanno fatto molto piacere", lui dice che "nel partito possono convivere posizioni diverse. Se queste sono le intenzioni, abbiamo tutto il tempo per valutare".
Più tardi Pier Luigi Bersani si augura che non venga posta la fiducia anche alla Camera: "Voglio proprio sperare che ci sarà lo spazio e il tempo" per le modifiche sul jobs act a Montecitorio, afferma l'ex segretario del Pd. Concetto ribadito successivamente anche da Gianni Cuperlo: "Voglio che che questo Governo faccia delle buone riforme, ma se va avanti a colpi di fiducia condizionando i parlamentari, anche quelli del Pd, questo non va nella direzione del cambiar verso, vuol dire andare in contromano".
Dissidi interni al Pd. Tre senatori non hanno votato la fiducia sul jobs act. Si tratta di Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Corradino Mineo. "Il tema sarà affrontato nell'assemblea del gruppo Pd al Senato. Non partecipare a un voto di fiducia che è politicamente molto significativo mette in discussione i vincoli di relazione con la propria comunità politica", spiega Lorenzo Guerini al termine della segreteria Pd. Ma ora sono fuori? "No - è la risposta - ne discuteranno il gruppo e la direzione serenamente e pacatamente".
Ma dalla minoranza del partito, a rispondergli è il deputato Pippo Civati, che dice: "Non si può avere un partito all'americana, con eletti con le primarie, e poi immaginare che ci sia una disciplina di stampo sovietico". Per Civati "se ci sarà un intervento disciplinare nei confronti dei senatori che sono usciti dall'aula al momento del voto, credo che si aprirà un bel dibattito sulla democrazia interna". Nel Pd, ha poi sottolineato, "c'è un problema grosso come una casa: molti hanno votato la fiducia non essendo d'accordo e lo hanno fatto solo per disciplina di partito, rispetto però a un partito che non ha mantenuto fede al proprio programma elettorale. Non ricordo che nessuno abbia detto che ci candidavamo a governare il Paese per cancellare l'articolo 18". A ruota annuncia: "Se sul jobs act metteranno la fiducia anche alla Camera, io non la voterò. Più che l'Italia, Renzi sblocca il parlamento".
Casadio: "Pd spezzato, per Fassina possibili altri casi Tocci"
Intanto, Stefano Fassina non esclude altri 'casi Tocci': "Dipenderà molto dalla disponibilità del presidente del Consiglio ad ascoltare posizioni che non sono isolate né personali, ma condivise da pezzi significativi del nostro mondo e degli interessi economici e sociali che rappresentiamo e vogliamo continuare a rappresentare". E più tardi afferma che "in assenza di modifiche significative" sul Jobs Act "io ritengo che la manifestazione della Cgil del 25 ottobre sia utile e quindi andrò in piazza."
Calo delle tessere. Affiancato da Debora Serracchiani, Guerini affronta poi il tema delle tessere. E fornisce i numeri: gli iscritti al Pd - dice - sono 239.322 al 30 settembre. Con questa cifra, prova a stoppare le polemiche sul calo dei tesserati di un Pd a gestione renziana. "Siamo molto al di sopra di quella cifra (100mila iscritti, ndr) su cui sono state dette parole, alcune anche ridondanti" ha proseguito Guerini che nei giorni scorsi aveva fatto sapere di voler puntare al superamento dei 300mila tesserati "veri" entro la fine dell'anno.
Affondo della Cgil. "Con la richiesta della fiducia sul Jobs Act, il governo, dopo aver negato il confronto con la rappresentanza del lavoro, ha compiuto ieri una palese forzatura che ha compresso il dibattito parlamentare, ha posto le basi per un'ulteriore precarizzazione dei giovani lavoratori, ha tolto diritti invece di estenderli, ha accentuato una logica di subordinazione del lavoro nei confronti dell'impresa, ha aperto spazi all'arbitrio e al sopruso". Lo afferma in una nota la Cgil. "Con una maggioranza assai risicata (solo 5 voti in più del necessario) - sottolinea il sindacato - è stato ieri approvato un disegno di legge delega lacunoso, ambiguo, indefinito e, in molte parti, sfuggente nei criteri. La fiducia richiesta al parlamento ha avuto come unico fine quello di portare in Europa lo scalpo dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Un obiettivo apertamente dichiarato dal governo che, a fronte di quanto emerso dal vertice europeo svoltosi ieri a Milano, si è rivelato debole e fallace".
Placet dell'Ocse. Di contro, il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurría, si congratula con Renzi per l'approvazione del jobs act. Già ieri Gurrìa, durante il vertice sul lavoro a Milano si era complimentato per la misura, augurando al premier che il parlamento lo approvasse. Ora il decreto delega è passato al Senato, e Gurrìa ribadisce: "Questo è uno sviluppo che salutiamo con forza. Il jobs act mette l'Italia in condizione di avere una crescita dinamica, che porterà benefici agli italiani, accelerando la creazione di posti di lavoro e riducendo la disoccupazione".