ROMA Non tutte le rendite sono uguali. La stretta annunciata dal presidente del Consiglio colpisce stavolta (dopo interessi, cedole e dividendi toccati dal decreto di aprile) un segmento particolare del risparmio, quello previdenziale. Sale infatti dall’11 al 20 per cento l’imposta sostitutiva che si applica sul risultato netto maturato dei fondi pensione. Contemporaneamente viene portata dall’11 al 17 per cento l’analoga tassazione applicata sulla rivalutazione del trattamento di fine rapporto, a prescindere dalla suo trasferimento in un fondo pensione. In particolare quest’ultima operazione può essere facilmente collegata alla scelta di trasferire, su base volontaria, i versamenti relativi alle liquidazioni direttamente nelle buste paga: con il passaggio al 17 per cento l’investimento nel Tfr, in vista della fine della carriera lavorativa, diventa un po’ meno conveniente.
GLI ALTRI NODI
Il trattamento di fine rapporto, a differenza dei fondi pensione il cui rendimento dipende dal mercato e dal tipo di investimenti fatti, si rivaluta con un interesse convenzionale dato dallo 0,75 per cento dell’inflazione dell’anno più un ulteriore 1,5 per cento. Proprio il possibile passaggio nella retribuzione dei versamenti relativi alle liquidazioni potenzialmente penalizza ulteriormente i fondi pensioni, che potrebbero dover fronteggiare un calo della massa di risparmio destinata agli investimenti.
Insomma tutta l’operazione sembra voler spingere gli italiani a impiegare immediatamente in consumi la liquidità, piuttosto che destinarla alle possibili esigenze future. Un orientamento che però non piace né al mondo dei fondi pensione (ed agli stessi sindacati che ne fanno parte) né a quello delle casse di previdenza private, le quali dal prossimo anno vedranno crescere dal 20 al 26 per cento la tassazione sulla rendita dei propri investimenti.
Le due situazioni sono collegate: lo scorso anno infatti, al momento di portare al 26 per cento (con l’eccezione di titoli di Stato e fondi pensione) il prelievo sulle rendite finanziarie, il governo aveva concesso una temporanea esenzione, con lo strumento di un credito d’imposta, proprio alle casse di previdenza private. La deroga era stata però finanziata per l’anno 2014 con il ritocco dall’11 all’11,5 per cento dell’imposta sostitutiva sui fondi pensione. Anche a seguito di contatti con il governo, le casse si attendevano la prosecuzione di questo regime, che invece è destinato a terminare: dal 2014 saranno anch’esse assoggettate al 26 per cento.
LE REAZIONI
Le reazioni così non si sono fatte attendere. Parla di «gravissima miopia istituzionale Andrea Camporese, presidente dell’Adepp (l’associazione che riunisce le casse private). Mentre il presidente della Cassa forense Nunzio Luciano si lamenta: «Siamo trattati da speculatori». Vanno oltre i commercialisti: il presidente della loro cassa, Renzo Guffanti, minaccia di «liquidare l’intero portafoglio in titoli di Stato, per un valore di 800 milioni». Insomma la rivalsa potrebbe concretizzarsi nella rinuncia a finanziare il debito pubblico. «Diciamo chiaramente che le pensioni integrative non servono più» avverte polemicamente l’ex presidente della Covip Antonio Finocchiaro.