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Pescara, 24/11/2024
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Data: 20/10/2014
Testata giornalistica: Il Messaggero
Renzi annuncia: «80 euro anche alle neomamme per tre anni». Guest star a Canale5: «Il bonus arriverà a partire dal 2015. Le Regioni arrabbiate per la manovra? Gli passerà...». Il premier cambia pelle al Pd: basta col recinto della sinistra

ROMA Il premier Matteo Renzi ha trovato lo spazio per una notizia nella chilometrica performance che lo ha visto protagonista ieri pomeriggio su Canale 5: «Dal prossimo anno gli 80 euro di bonus mensile andranno anche a tutte le mamme, o i papà, per i primi tre anni di vita del loro figlio che nascerà nel 2015 - ha rivelato Renzi all’intervistatrice Barbara D’Urso - So cosa significa comprare pannolini e biberon. È una misura che non risolve un problema ma è un segnale».
In serata, da Palazzo Chigi sono filtrati anche alcuni dettagli dell’operazione come il tetto di reddito piuttosto alto (90 mila euro lordi) oltre il quale il bonus non scatterà e anche la somma stanziata dal Tesoro che ammonta a 500 milioni per il 2015. Per ora non si conoscono le disponibilità ufficialmente previste per gli anni successivi che dovrebbero essere pari al doppio per il secondo anno (ai bambini del 2015 si sommeranno quelli del 2016) ed al triplo il terzo, per un totale di 1,5 miliardi. Cifra che si stabilizzerebbe dal 2018, con un'uscita costante di 1,5 miliardi, visto che da quell'anno non si verseranno più i 500 milioni ai nati nel 2015. La misura pro-mamme che non è piaciuta al segretario della Lega Matteo Salvini che ha diffuso una nota per definirla platealmente una «presa per il c.....».
Oltre che alle famiglie, Renzi ha lanciato un altro segnale importante. Alle Regioni. Verso le quali mantiene un atteggiamento di freddezza: «Protestano? Gli passerà....». Poche parole che tornano a respingere al mittente il fortissimo disagio mostrato dalle Regioni di fronte all’improvviso taglio di 4 miliardi delle loro risorse previste per il 2015.
IL RACCONTO & GLI APPLAUSI
Renzi i presidenti delle Regioni li mette dietro alla lavagna così: «E’ una vergogna anche solo dire che ci saranno tagli alla Sanità». «E’ impossibile - dice - che i servizi delle Asl agli anziani o a chi soffre di malattie terribili come la Sla possano diminuire mentre ci sono spese che possono tranquillamente diminuire».
Il resto del Renzi-pensiero scorre lungo l’asse del marketing politico e si trasforma in una lunga difesa del carattere espansivo della manovra e della sua volontà di varare le riforme lanciata - a pochi giorni dallo sbarco in Parlamento della Legge di Stabilità - dal trampolino di una trasmissione seguita soprattutto dalle famiglie dell’Italia profonda.
«Sono arrabbiati un pò tutti - spiega Renzi trasformando in consenso per sé le grandi resistenze che dovrà superare - Regioni, sindacati, magistrati. Io, certo, non ho la verità in tasca ma il governo non è un giocattolino: noi siamo al governo da 8 mesi e o tutti facciamo uno sforzo insieme restituendo i soldi ai cittadini o non c'è futuro».
Il racconto di Matteo Renzi, poi, sposa una retorica molto diretta, chiara, al limite del semplicismo, destinata ad un pubblico senza troppi grilli per la testa. «Per la prima volta - sottolinea - una manovra taglia 18 miliardi di tasse». «Siccome per vent'anni hanno sempre pagato le famiglie - chiama l’applauso - Ora se iniziamo a fare un pò di tagli ai ministeri e alle Regioni, non è che si possono lamentare». E l’applauso scatta. Condito con gli immancabili selfie post-trasmissione. In mezzo Renzi fa un riferimento al taglio dell’Irap («Aiuta le imprese e mette a dieta lo Stato»), alle tante riforme compresa quella delle Unioni civili e chiude così: «Se potessi farle da solo sarebbero già varate a dicembre ma non siamo in una dittatura».


Il premier cambia pelle al Pd: basta col recinto della sinistra
Oggi la Direzione. E il segretario è deciso a certificare il nuovo dna maggioritarioIl modello dev’essere il Partito del Paese: centrale, interclassista, nazional popolare

ROMA Non si spingerà fino a chiamare Dc il Pd. E starà ben attento a non ricordare che qualcosa del genere l’ha tentata e (in parte) realizzata il suo amico e fan Silvio Berlusconi, come il suo predecessore Walter Veltroni. Ma oggi Matteo Renzi, senza clamore e senza enfasi, in una riunione della Direzione convocata soltanto per far contenta la minoranza interna, ratificherà la nascita del “Partito del Paese”. Qualcosa che somiglia molto alla Democrazia cristiana, appunto. Tant’è, che il primo a parlare di “Partito del Paese” (e non per elogiarlo) fu Beniamino Andreatta.
A Bersani e Cuperlo, a Massimo D’Alema e Fassina che hanno protestato quando s’è scoperto che gli iscritti al Pd erano crollati da 400mila a 100mila («ma per la verità sono 230mila»), Renzi risponderà dicendo più o meno quello che diceva Veltroni. Usando però non il tempo futuro, ma quello presente: «Abbiamo realizzato un partito a vocazione maggioritaria, il 40,8% dei voti conquistato alle elezioni europee è lì a confermarlo». Un progetto e un’idea molto simile a quella di Berlusconi che però, proprio ieri, è dovuto ancora ricorrere al futuro: «Il mio sogno è vincere da solo, senza alleati».
Il “Partito del Paese”, per essere tale, secondo Renzi deve essere «interclassista» e «centrale» nello schieramento politico. Deve essere nazional popolare. Capace - come ha fatto ieri nel salotto tv di Barbara D’Urso lanciando gli 80 euro per le neo-mamme... - di «parlare a tutti, senza steccati ideologici» e di adottare «politiche utili al Paese e non alla propria parte politica». Insomma, il Pd di Renzi è un partito che «esce dal recinto tradizionale della sinistra», per diventare «una forza politica in cui gran parte del Paese si riconosce».
LA METAMORFOSI
Renzi farà seguire queste considerazioni dal suo più classico...«già fatto». La metamorfosi è già avvenuta. E’ nei fatti: i provvedimenti varati dal governo a volte piacciono a destra, altre (meno spesso) a sinistra; gli elettori sono targati Pd, ma anche Forza Italia come dimostrano i flussi elettorali del voto di maggio. La legge di stabilità appena varata, ad esempio, fa impazzire di gioia la Confindustria e infuriare la Cgil.
Tutto ciò cambia identità e Dna del Pd, modifica valori e basi di riferimento. E per dirla con Giorgio Tonini, cui Renzi ha affidato l’incarico di preparare la Direzione di oggi, «ciò ha conseguenze evidenti anche su come si deve strutturare il partito. Non può più andar bene una classe dirigente chiusa e autoreferenziale». In poche parole renziane: «Basta con la Ditta chiusa e i soliti noti».
Alla sinistra interna che denuncia un partito in crisi, il premier e segretario oggi ribatterà dicendo che «il modello Pd è vincente». Che il suo Pd «è la storia di un successo». Perché «è l’unico partito in salute in Italia. Anzi, forse l’unico partito...». E perché è «anche l’unico a vincere in Europa», come dimostra la crisi del Ps francese, della Spd tedesca, del Labour inglese e come prova la vittoria elettorale di maggio, «che fa del Pd il partito di governo con più voti».
Guai invece a parlare di “Partito della nazione”: «Quel nome non ci piace», dicono al Nazareno, «ricorda il partito nazional fascista di Mussolini».
Non mancano i problemi. Renzi dirà che bisogna trovare il modo per non rendere episodico il contributo dei tre milioni di cittadini che costituiscono il “popolo delle primarie”. «Non possono sparire tra un voto e l’altro», sostiene Tonini. E farà sapere, il premier, che i soldi sono pochi e occorre sensibilizzare «la gente sul contributo del 2 per mille». Come bisogna vigilare sulla «qualità» degli iscritti («non basta la quantità!»), garantendo trasparenza nelle procedure di tesseramento.

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