FIRENZE Dario Nardella è l’unico che ha partecipato a tutte le Leopolde. Matteo Richetti arrivò all’edizione numero due, quella del 2011. E così Maria Elena Boschi, la quale non c’era all’esordio di questa kermesse fiorentina alla ricerca del nuovo, e nella seconda edizione prese la parola da giovane avvocata ancora sconosciuta ai più e fece un figurone. Alla prima Leopolda nel 2010 c’era invece Pippo Civati, che domani starà invece nella piazza della Cgil a Roma. Mentre Nardella - ora sindaco di Firenze - è sempre sul percorso originario che va avanti. Nel 2010, Matteo aveva il ciuffo un po’ rockabilly e Dario mostrava qualche chilo in più. Ora il sindaco coordina uno dei cento tavoli disseminati sul set ed è quello dedicato alle «città future».
Sindaco Nardella, da veterano delle Leopolde quel è secondo lei la differenza tra questa e le precedenti edizioni?
«Ogni Leopolda è diversa dalle altre. E rispecchia una fase propria. Penso a quante cose sono accadute dal 2010, quando ci fu la prima edizione, ad oggi. E’ cambiato il mondo. Io mi aspetto questa volta il piacere di vedere realizzati i tanti desideri del passato. Questa è la prima Leopolda dei fatti. Dopo le Leopolde delle idee».
Quindi è giusto chiamarla Leopolda di governo?
«E’ riduttivo. Perchè questa definizione fa pensare solo alle istituzioni. Invece, da oggi, arriveranno a Firenze donne e uomini con le più diverse esperienze nella società civile. Il bello della Leopolda è che, lì dentro, scompaiono, le etichette e prevalgono le persone. Ai tavoli, saremo tutti uguali. Anche questo è un bel messaggio».
Un cattivo messaggio potrebbe essere quello della Leopolda come carro su cui salgono opportunisti e trasformisti
«Alcuni dicono che questa sia una Leopolda di corrente. Tutti cercano di criticarla in qualche modo. La verità è che è un appuntamento aperto a chiunque voglia dare una mano all’Italia. E’ un luogo dove non ci sono i pregiudizi e non si fa l’analisi del sangue a nessuno. Io non sono tra gli organizzatori o tra gli ideatori di questa manifestazione, ma ho partecipato attivamente a tutte le Leopolde e mi ha sempre colpito questo carattere di estrema apertura. L’opposto di una corrente».
Insomma, non teme il tutti in soccorso del vincitore?
«Non vedo questo fenomeno. Per due ragioni. La prima: non mi pare che Renzi abbia bisogno di soccorso. La seconda: alla Leopolda non si parla del presidente del consiglio, ma del futuro dell’Italia».
Non è che la Leopolda è la good company che luccica rispetto al Pd come bad company?
«Smettiamola con questa contrapposizione strumentale. Nel Pd del quasi 41 per cento, ci sono tantissime persone e idee della Leopolda. Non vedo dove sia il problema. Anzi, grazie anche a queste iniziative aperte e plurali, il Pd e la politica più in generale riescono meglio ad uscire dagli steccati e dall’autoreferenzialità. Il Paese non è inscatolato tra le mura del Nazareno. Va ben oltre. Più ne siamo convinti e più cresceremo».
Quindi Cuperlo e Bersani dovrebbero essere alla Leopolda e non in piazza o a casa?
«Ci ripensino. Voglio lanciare un appello perchè vengano anche loro a farsi contagiare dall’entusiasmo e dalla freschezza delle idee oppure vengano anche solamente per ascoltare».
Invece la minoranza Pd si fa contagiare, in contemporanea con la Leopolda, dalla protesta della Cgil a Roma?
«Quella della Cgil sembra sempre di più una manifestazione politica, piuttosto che la legittima rivendicazione dei diritti del lavoro».
C’è o non c’è contrapposizione tra la vostra stazione e la loro piazza?
«Non esiste questa contrapposizione. Anche la Leopolda è una pizza. Ma soprattutto è un luogo aperto, che guarda il futuro».
L’altro luogo guarda al passato?
«Dipenderà dalla Cgil se limitarsi ad una battaglia di conservazione, oppure dare a quella piazza il carattere di un’iniziativa propositiva. Quel che è certo è che i partiti, da tempo, si sono messi radicalmente in discussione, come dimostra il Pd e come dimostrano tutte le Leopolde. Facciano lo stesso anche i sindacati».
Sta proponendo una Leopolda della Cgil?
«Un po’ di Leopolda non farebbe male anche al sindacato. Del resto, a Firenze, in questa tre giorni, partecipano tanti lavoratori e tra questi anche sindacalisti. Ci sarà, per esempio, il segretario cittadino della Fiom, Daniele Calosi. Mi aspetto che il lavoro sarà protagonista nei cento tavoli».
Non vede il rischio che, sotto la cromatura nuovista e cool, la Leopolda finisca invece per diventare un’altra versione del centrismo e del trasformismo di sempre?
«E’ un pericolo che non vedo proprio. Alla Leopolda, ho sempre trovato idee forti e spirito di cambiamento. La grande sfida è governare il Paese senza smarrire questa peculiarità. Si può avere, in un sistema bipolare, il 40 per cento e più senza ammalarsi di centrismo e di trasformismo».
Come ritrovo del renzismo più profondo, sarà allora una sorta di festival del voto subito?
«Nessuna smania di corsa alle urne. Anche perchè la sfida emozionante delle riforme in atto prevarica il desiderio dello show down».