Nelle grandi manifestazioni di piazza, quelle in cui si reclama a gran voce il lavoro, non sono i giovani la maggioranza. Fateci caso: le telecamere scrutano i cortei, vedi quello della Cgil di ieri a Roma, e ci restituiscono soprattutto volti di cinquantenni, tra l’avvilito e l’indignato. Gli uomini in genere sono pallidi, stempiati, al posto dell’eskimo di un tempo portano giacche a vento da grande magazzino; le donne hanno la voce roca, per quanto hanno gridato, con pettinature che tradiscono il fatto che ormai si risparmia anche sulla parrucchiera. In questi frangenti, sembrano avere più energia dei colleghi uomini, anche se a certo punto le loro urla si strozzano nel pianto. Bisogna dirlo forte: ancora più dei giovani, che almeno hanno la possibilità di emigrare, sono i cinquantenni le vittime più indifese di questa crisi. Loro dove vanno? Molti, oltre al lavoro che già hanno perso o che temono se ne andrà presto, hanno smarrito anche la dignità. Vengono da decenni di benessere, di tranquillità, e all’improvviso si trovano sulla testa un macigno fatto di mutui che non riusciranno a pagare e di figli a cui dire che il futuro sarà fatto di molte rinunce e poche gioie. E molti piccoli imprenditori, coetanei un po’ invidiati fino a qualche anno fa, vivono una situazione forse peggiore: il giudice delegato ai fallimenti del tribunale di Teramo, Giovanni Cirillo, ha raccontato di gente che ha perso tutto e implora di avere almeno i mezzi per mangiare. Le grandi aziende se la cavano, spesso con i concordati preventivi, ma i piccoli vanno al macello, «distrutti dopo avere lavorato una vita». Sono storie così toccanti da far dire al giudice che rimpiange i tempi in cui lavorava nella trincea del penale, a Salerno. Non so come si faccia a dare una chance a questi “non più giovani”, che vorrebbero uscire dalle piazze della rivolta e tornare all’anonimato della loro vita di prima. Ma almeno pensiamoci, non facciamo finta che non esistano. Buona domenica.