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Data: 26/10/2014
Testata giornalistica: Il Centro
Un dovere ascoltare la protesta di Gianfranco Bettin

Spesso, in Italia, le cose non sono come sembrano, nemmeno in campo sociale e politico. Ad esempio, ieri, il sabato della Leopolda e della Cgil è sembrato dividere in modo inequivocabile il campo della sinistra e in particolare del Pd. Una parte a Firenze nell’ex stazione realizzata nel 1844 dal granduca di Toscana, e una parte a Roma a San Giovanni. Da un lato il governo (di centrosinistra, con un po’ di centrodestra), dall’altro l’opposizione (di tutte le sinistre). Da un lato alcune migliaia di sostenitori di Matteo Renzi, dall’altro un milione di contestatori delle sue politiche sul lavoro. Forse, a illuminare meglio la divaricazione, più ancora che i due protagonisti ovvii, Renzi e Camusso, sono stati Maurizio Landini e il finanziere Davide Serra. Landini con un silenzio che, lasciando il microfono solo a Susanna Camusso, sottolinea eloquentemente il ruolo della Fiom nel coinvolgere tutta la Cgil in un percorso che porta allo sciopero generale e a un duro scontro con il governo. Davide Serra con la proposta provocatoria e inaudita (in una sede della sinistra) di limitare il diritto di sciopero. In realtà, appunto, le cose sono più complesse di come sembrano. Una parte della stessa piazza di Roma è infatti oggi al governo e dal Parlamento e dal partito può provare a dar voce e sbocco concreto alle richieste di chi ha manifestato. Viceversa, molti fra i presenti alla Leopolda si sentono tuttora all’opposizione malgrado il loro leader sia diventato premier. Sentono che la guida del governo non garantisce di essere davvero, in modo innovativo e dinamico, alla guida del paese, frenato com’è il “sistema Italia” da conservatori e burocrati, da incrostazioni e rendite di posizione (e da vincoli e piani europei). Non basta, sentono, sedere alla presidenza del Consiglio per avere il potere di cambiare con la rapidità e la profondità necessarie. A maggior ragione, qualcosa del genere può dire chi manifesta: non basta essere in tanti, milioni, essere il popolo della sinistra, essere il più grande sindacato del paese, per raggiungere gli obiettivi prefissi, per averne la forza. “Piazze piene e urne vuote” è un vecchio e sfigato (o irridente) modo di dire che allude ai vicoli ciechi politici ed elettorali in cui sono finite molte mobilitazioni di massa della sinistra. Ma significa anche, per il sindacato, il rischio di avere piazze piene e solitudine politica, scioperi riusciti ma lotte infine perdenti. Per evitare questa sorte, troppe volte già vista, mobilitazione sociale e sindacale, iniziativa politica e azione di governo dovrebbero sapersi sintonizzare, pur nella differenza dei ruoli e nell’inevitabilità e, anzi, nella produttività del conflitto. I renziani hanno respinto l’accusa lanciata ieri da Rosi Bindi, in piazza a Roma, secondo la quale alla Leopolda starebbe nascendo una sorta di “post Pd”. A un primo sguardo, la Bindi sembrerebbe aver ragione. Siamo, però, in un paese complesso, intriso di politica o forse solo più capace di altri (quando va bene) di spremere dalla politica tutto ciò che di utile e perfino di imprevedibile è in grado di dare. Gli innovatori della Leopolda, anche perché sono comunque al governo del Paese e ne avrebbero quindi il dovere, dovrebbero provare a tessere un filo politico comune con chi ha portato in piazza le ragioni di sempre della sinistra, le ragioni del lavoro e del futuro (che significa giovani, donne, diritti, ambiente, energia, innovazione nutrita da sapere, tecnologia e cultura). O dalla Leopolda e da palazzo Chigi si tesse questo filo o si consumerà una frattura di portata incalcolabile. Si può perdere un finanziere internazionale (già estimatore di Bush e oppositore di Obama) che vuol limitare un diritto fondamentale, non una parte così grande di un popolo, della propria stessa storia.

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